Di Croce, di Gramsci e della Terra 2. Ariosto e Vico
Manlio Iofrida

25.11.2023

2. Ariosto e Vico


La prima premessa riguarda Ludovico Ariosto. Non stupirà certo che, per parlare di Croce, si passi per l’Ariosto; d’altra parte, dato il carattere strategico che stiamo dando all’eredità rinascimentale, parlare del poeta ferrarese è indispensabile: il Furioso è probabilmente la summa, la sintesi suprema della cultura della nuova Italia nel suo punto di massimo splendore. Gli studi degli ultimi quarant’anni, che hanno completamente rinnovato la lettura del capolavoro ariostesco, hanno dissolto l’immagine tradizionale (cui sembra aderire perfino Auerbach) di un Ariosto che fugge da un mondo reale tragico nel fantastico mondo della cavalleria. Per un lato (Bigi), il concetto di armonia, cui Croce aveva dato una decisiva sistemazione, tanto che esso è tuttora il punto di partenza delle discussioni sul Furioso, è stato privato dei suoi aspetti classicistici e armonici: sia a livello formale, cioè nella struttura dell’ottava, che a livello dei contenuti l’armonia è solo l’altra faccia di un chiasma che la congiunge al suo contrario: al conflitto, alla dissonanza, al tragico. In questo senso, arricchendo e sostanziando ulteriormente una direzione di pensiero che era già stata di Calvino (“Quello d’Ariosto è il gioco d’una società che si sente elaboratrice e depositaria di una visione del mondo, ma sente anche farsi il vuoto sotto i suoi piedi, tra scricchiolii di terremoto.”, Calvino, Orlando Furioso di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino, Milano, Mondadori, 1995, p. 32), è stato mostrato in modo sempre più convincente il radicamento del poema nel mondo e nella storia del suo tempo. E se l’ottava è certo lo specchio espressivo che dà voce a tutti gli aspetti del reale, questo non delinea un panteismo unilateralmente monistico, conciliato e panglossiano ante litteram: la molteplice realtà naturale e storica che viene alla luce col Furioso, il sensibile infinitamente variegato che splende nel poema è carico di contraddizioni e fissurazioni. È in questo senso che l’ironia ariostesca ci appare come un antecedente diretto di quella romantica (Rivoletti), carica della stessa ambivalenza fra realismo e soggettivismo che Auerbach aveva attribuito alla filosofia romantica di uno Schlegel e dei suoi sodali jenesi; e vien da chiedersi se la lettura che del Furioso dettero questi ultimi, così condizionata com’era dall’influenza di un idealismo come quello di Fichte, non fosse già riduttiva rispetto alla centralità che il sensibile, il naturale e il reale avevano in Ariosto; e se, su questo punto, sia la “seconda” che la “terza modernizzazione” non costituissero un balzo indietro, un impoverimento rispetto al modello italiano rinascimentale.

Un altro aspetto che del poema è venuto ultimamente in più pieno rilievo è quello del suo legame con lo spazio: gli sconfinati spazi che i personaggi dell’Ariosto percorrono, e non solo sulla schiena dell’ippogrifo, sono apparsi intimamente legati a quelle scoperte geografiche che a ragione vengono indicate come la cesura più importante fra immagine del mondo medioevale e quella rinascimentale. Se la lettura del Furioso come “poema dello spazio” (Berlasconi) è talvolta incorsa negli equivoci della combinatoria strutturalistica, l’assoluta centralità che nel poema hanno il caso, l’evenemenziale e tutto ciò a cui si può dare la pregnanza filosofica della contingenza lo sottraggono a quegli equivoci e configurano una realtà che ha la rugosità, l’irriducibilità e la resistenza al concetto che caratterizzano sia la natura che la storia in un significato assai prossimo a quello che noi oggi sentiamo vivo e attuale.

Tutto questo può essere visto anche dal punto di vista panofskyano, a cui già ci siamo riferiti, della prospettiva: di nuovo sulle tracce di Rivoletti, e forse spingendoci un po’ più oltre, il legame che stringe la modalità narrativa del Furioso alla nuova tecnica pittorica brunelleschiana è essenziale, sia se si guarda alla struttura paradossale e “interlacciata” dell’intreccio, sia se si prendono in considerazione i molteplici rinvii fra autore e lettore, fra finzione e realtà con cui è costruito il poema.

Insomma, andando oltre la lettera, ma non lo spirito dello schema auerbachiano di Mimesis, il Furioso ci appare sempre più rispondente alla sua nozione, non rappresentazionista e oggettivistica, ma fenomenologica, di realismo: realismo legato alla vita, fin nelle pieghe del suo attimo quotidiano, e realismo legato alla storia.

La seconda premessa, rispetto al discorso su Croce che intendo sviluppare, è ancora più ovvia: si tratta di Vico e della sua Scienza nuova. Dopo la grande crisi, politica e culturale, che investe l’Italia nel XVI secolo, l’opera di Vico rappresenta un primo, decisivo momento di ripresa, un tentativo - nel lungo periodo, possiamo dirlo, pienamente riuscito – di ridare voce in modo creativo alla grande tradizione italiana dei secoli precedenti. In modo creativo: poiché Vico, erede della tradizione rinascimentale, profondamente radicato in esso, ne è un’espressione che la rinnova, come primo momento di modernizzazione, alla luce del secondo e successivamente ad esso: il confronto con Cartesio e con Hobbes, il confronto col XVII secolo, il dialogo critico, ma non solo critico e negativo con tale secolo e la rimessa a giorno della tradizione italiana (rinascimentale, ma anche precedente), filtrata attraverso l’esperienza barocca della Controriforma, sono la sostanza della operazione di Vico, che giustamente continua a stupire per la sua portata gigantesca. Naturale, poi, che egli possa apparire isolato: i suoi conti con la terza modernizzazione, sia illuministica che romantica, a un secolo di distanza, non possono che essere complessi (mentre con quella di 800-900 sono molto più positivi: fra la fine dell’Ottocento e i giorni nostri, egli è diventato un protagonista). Sul piano concettuale, e senza nascondere che nel modello vichiano vi sono ambiguità e esitazioni, si potrà notare come la tematica del rinascere venisse da Vico generalizzata in una sistematica filosofia della storia; che quest’ultima non si presentava però affatto come una ripresa della ciclicità antica, ma mettesse in gioco in modo complesso freccia e circolo, ripetizione e innovazione, senza peraltro cadere in un provvidenzialismo laicizzato del progresso. In questa visione della storia, gli equivoci del classicismo, che ovviamente erano tutti interni al modello rinascimentale, erano superati d’un balzo, inserendo nella storia la mente primitiva – in un modello in cui un poeta come Dante, mai digerito dal classicismo, poteva essere pienamente valorizzato, pur riconducendolo un po’ riduttivamente all’ingenuità di Omero.

Il facere storico, l’attività e la soggettività degli uomini, a cui l’esperienza storica e culturale del XVII secolo aveva dato nuovo rilievo, non significavano però – a differenza che, ad esempio, in Cartesio – una completa passivizzazione della natura: quest’ultima mantiene nel modello vichiano una sua autonomia e irriducibilità e lo stesso facere storico è bilanciato da un senso comune che rappresenta un dare spazio, nella storia, all’inconsapevole, al non intenzionale, al non strumentale. Dal punto di vista del conflitto, Vico si poneva con decisione sulla scia del Machiavelli dei Discorsi e la lotta fra patrizi e plebei era vista come una matrice fondamentale di quella civiltà romana che per Vico rappresenta lo schema fondamentale della storia universale. Vico è così il primo a valorizzare, ben prima della Rivoluzione francese, la plebe come soggetto fondamentale della storia.

Se si pensa che un altro aspetto fondamentale della Scienza nuova è il suo collocarsi all’interno della cultura meridionale e della sua incipiente lotta con il feudalesimo, questo crea un collegamento fra il pensiero di Vico e il destino delle masse contadine che aveva certo dei precedenti nel Rinascimento, ma che comunque sarebbe stato destinato a degli sviluppi futuri di grande rilievo. E anche il nesso che si veniva a creare fra mente primitiva, “selvaggi” e “semplici”, masse contemporanee non era qualcosa di secondario. Infine, anche sulla questione del corpo e del sensibile, il platonismo dichiarato di Vico era tutt’altro che incline a farsi assorbire in uno schema idealistico: il corpo – a partire dalla Discoverta del vero Omero – era un protagonista nell’opera del filosofo napoletano, i cui legami col panteismo rinascimentale, pur con riformulazioni concettuali di fondo, rimangono stretti.

Nel complesso, dunque, dal tema della rinascita a quello del conflitto, a quello della valorizzazione delle plebi, fino a quello del sensibile e del corporeo, Vico operava un rilancio del patrimonio filosofico e culturale italiano che, rinnovandolo, ne manteneva comunque dei tratti fondamentali molto precisi, che sarebbero stati difficilmente assimilabili dalla stessa “terza” modernizzazione, così segnata dall’idealismo tedesco, che ne costituisce comunque l’espressione suprema.

Adesso possiamo dunque volgerci a Croce, per cercare di capire il senso della sua operazione sulla tradizione italiana, dopo il Risorgimento.

[continua]