Di Croce, di Gramsci e della Terra
(appunti del tutto provvisori per una ricostruzione della tradizione filosofica italiana 1)
Manlio Iofrida

12.11.23

1. Premesse e impostazione del problema

Più volte, su questo periodico, e da varie voci è stato osservato come, nella storia culturale, e specialmente filosofica, italiana, alcuni momenti, e in particolare quello degli anni sessanta e poi quello degli anni Ottanta-Novanta, abbiano costituito dei crinali in cui, drammaticamente, sono stati tagliati alcuni fili essenziali del nostro patrimonio culturale e come questo abbia concorso in modo decisivo a generare la situazione drammatica odierna, in cui il disorientamento e la perdita di prospettive appaiono totali. L’uscita del primo volume di una documentatissima biografia di Croce, che è anche e soprattutto una sua nuova biografia intellettuale (D’Angelo), ci sembra l’occasione opportuna per riaprire un discorso sul filosofo napoletano, che, in quei passaggi storici, fu una delle vittime principali del taglio netto che le nuove generazioni intellettuali praticarono rispetto al loro passato. Tanto è vero che, a partire dagli anni sessanta, e ancor più dagli anni Ottanta, il riferimento a Croce, non in senso filologico, ma come vero “classico”, come viva matrice di temi che costituiscono l’identità profonda della cultura italiana, si è perso completamente. Eppure, a cavallo fra 800 e 900, di tale identità egli era stato (ben più profondamente e decisivamente di quel Giovanni Gentile che gli è stato in sostanza preferito negli ultimi decenni) un costruttore sostanziale, sul piano filosofico, letterario e politico; con un’opera quantitativamente sterminata, ma che, anche dal punto di vista qualitativo, era straordinaria per originalità a livello europeo e mondiale – e non è fuor di luogo ricordare che Croce è stato l’ultimo intellettuale italiano che abbia avuto un irradiamento mondiale così vasto e profondo. Cosa è vivo e cosa è morto, nell’Italia che conosce oggi una crisi così devastante sotto diversi punti di vista, dell’eredità di Croce? Come un patrimonio così ricco può essere riattivato? Per confermare la legittimità della domanda, vorrei aggiungere che altri paesi trattano molto meglio la loro tradizione; e ricorderò l’esempio della Francia, in cui la presenza di Bergson – sostanzialmente contemporaneo di Croce – dopo qualche non lungo periodo di declino, è ormai da decenni vivissima, e non nel senso di un residuo di un passato che comporti arretratezza, ma come fonte di rinnovamento e con nuove letture che evidenziano aspetti attuali del suo pensiero. Possiamo fare qualcosa di simile con Croce qui in Italia? E perché non è stato fatto, ed è anzi in atto da molto tempo una vera e propria rimozione, con, spesso, atteggiamenti di sottovalutazione, se non di calunniosa diffamazione sul piano intellettuale?

Rispondere è difficilissimo, perché comporta affrontare una serie di questioni molto ampie, che investono la storia italiana nel suo complesso. Negli interventi che seguono, non ho certo l’ambizione di fornire delle risposte esaurienti a tali questioni, ma solo delineare, in punteggiato, un programma di ricerca, proporre una serie di ipotesi di lavoro che investe alcuni nodi molto generali su cui è necessario tornare a riflettere a partire dalla nuova situazione, storica, politica, filosofica, odierna. Dato il carattere di bozza, di semplice tentativo di fornire degli stimoli di ricerca, rari saranno i riferimenti bibliografici che darò volta per volta sulle singole questioni: per ragioni di economia del discorso e per la sua stessa struttura, li dovrò dare come impliciti.

In questo senso, il primo punto riguarda quello che potremmo definire il codice genetico della cultura italiana, filosofica, ma non solo filosofica, gli aspetti che per un lato ne hanno fatto una delle culture moderne occidentali più influenti e che, per l’altro, dal punto di vista odierno, della situazione storica di oggi, possono costituire degli elementi di forza, delle risorse per costruire e ricostruire una adeguata e nuova visione del mondo.

Con estrema schematicità, dirò dunque che il primo di questi aspetti è il legame profondo (ereditato dalla latinità, che è un presupposto fondamentale su cui non è possibile qui soffermarsi) col terrestre, col sensibile, col naturale. A partire già da Dante (su cui mi riferisco alla lezione di Auerbach; ma ricorderò anche che Friedrich Schlegel considera Dante il padre della poesia moderna) e da Giotto, si sviluppa, in Toscana prima (Boccaccio, Petrarca), in tutt’ Italia poi, un nuovo sentimento e una nuova idea del mondo, rispetto a quella del Cristianesimo precedente in cui l’al di qua ha un ruolo decisivo anche nel riconfigurare i rapporti con l’al di là. Questa rivalutazione del sensibile e del terrestre va ben al di là della pura immanenza e dell’empirismo piatto: è piuttosto una loro redenzione, ovvero una loro promozione a pienezza ontologica. Essa si è espressa attraverso una rivoluzione figurativa culminata nel XVI secolo e attraverso un rinnovamento filosofico che passa, solo per nominare le cime, per il neoplatonismo fiorentino, per l’aristotelismo ateo di Pomponazzi, ma che coinvolge anche l’Italia meridionale, con Telesio (che rinnova il naturalismo dei veteres, cioè dei Presocratici), con Bruno e con Campanella.

L’invenzione della prospettiva, fra Brunelleschi e Alberti, apre una complessa partita fra il sensibile e il geometrico e razionale, dove la forte rivalutazione del momento naturale è in forte dialettica con la sua geometrizzazione; e dove il coinvolgimento dello spettatore (in un modo che né la cultura classica né quella cristiana conoscevano) apre in modo fecondamente contraddittorio all’oggettivismo della “finestra” sul Mondo e alla sua completa soggettivizzazione. Non meno feconda e contraddittoria è la partita che si apre con la “sensata esperienza” di Galilei, fra dato sensibile e dato matematico (con le conseguenze che arrivano fino a Husserl, ma secondo una linea a cui si rifarà direttamente Newton per costruire la prima fisica veramente moderna e rigorosa).

Al di là della frammentazione politica, è noto come questo poderoso insieme di realizzazioni, che cambierà il volto dell’Europa, abbia prodotto una prima unificazione dell’Italia, che, nell’epoca del Rinascimento, è già un paese con un profilo ben preciso, pur perdendo la sua indipendenza proprio in quel periodo. È da tener conto come l’operazione di rivalutazione del terrestre che parte dalla Toscana e poi dall’Italia centro-settentrionale si incontri con quella, che ha anche un profilo diverso, dell’Italia meridionale: il platonismo fiorentino e le posizioni pompanazziane del centro-nord esprimevano una civiltà comunale che era sostanzialmente cittadina e rimaneva più lontana dalle compagne; per parte sua, la grande cultura meridionale (a cui fu tutt’altro che estraneo un toscano come Boccaccio) si porta dietro un rapporto molto più profondo e immediato con le campagne (anche se meno contrapposto di quanto possa apparire a primo sguardo), e Vico ne sarà erede ed espressione anche in questo.

Questa grande costruzione di una prima versione della cultura moderna non sarebbe comprensibile senza tener conto degli elementi di rinnovamento religioso che la irrorarono potentemente; il nesso fra Giotto e San Francesco (nome del tedesco), in passato troppo dato per scontato, oggi è troppo trascurato; il Rinascimento, se fu rinascimento dell’antico, lo fu perché animato da un senso di rigenerazione dell’anima individuale e di riforma religiosa che ne faceva un movimento popolare; la storia ereticale italiana, se doveva concludersi con uno scacco della riforma in quanto tale, e anche gli aspetti di riforma religiosa, non mancano di essere una viva risorsa spirituale, nonché un versante politico, fondamentale per tutta la cultura italiana di questi secoli (sulla figura di Francesco e il suo significato molto oltre il momento storico in cui egli agì rimando ancora a Auerbach, non solo al suo saggio su Francesco, ma a tutta Mimesis). Questo aspetto religioso è fondamentale per mettere a fuoco il risvolto utopico della cultura italiana del Rinascimento: le lunghissime discussioni sul suo carattere “borghese” o “cortese”, sul suo élitismo e , addirittura, sul suo carattere antipopolare, se non rimesse nei loro giusti limiti, peccano di un greve sociologismo (quando non sono esplicitamente conservatrici) e non possono impedire di vedere tutto ciò che nella nostra cultura rinascimentale eccedeva i limiti di una società determinata, proponendo dei modelli e delle forme di vita in cui gli aspetti di gioco, di reciprocità, di rivalutazione del corporeo e dell’erotico ecc. erano ispirati a istanze di liberazione e di riscatto con radici antichissime e con rinvii “matriciali” a movimenti molto successivi; l’idea di Rinascimento, con gli aspetti religiosi che la irroravano, conteneva un momento apocalittico, un’istanza di rigenerazione completa del mondo e della società che andava ben oltre i suoi limiti cronologici e la sua collocazione nel suo tempo.

Questo momento religioso, apocalittico, utopico essenziale nel Rinascimento italiano significa che fra i caratteri originari della cultura italiana di questi secoli dobbiamo annoverare anche un rapporto essenziale con la storia, la creazione di una nuova idea di storia: gli equivoci del classicismo e la tensione polemica con i “secoli barbari” del Medio Evo sono non una negazione della storia, ma la configurazione di una temporalità che, nel proporre il presente come luogo di una rinascita e di un rinnovamento del passato, configura una concezione che, combinando innovazione e ripetizione, è particolarmente vicina alle esigenze di noi contemporanei: a un modello che sembra già prefigurare l’idea merleau-pontyana di istituzione.

L’insieme delle realizzazioni della cultura italiana fra il XIII e il XVI secolo costituivano, con la rivalutazione del terrestre e del sensibile, antinomicamente limitata dalle istanze matematizzanti e formalizzanti, e la proposta di un’idea di una nuova comunità terrestre, con l’introduzione della speranza di nuove forme di vita e di una nuova concezione della storia, una prima forma di modernizzazione; non che essa teleologicamente contenesse i diversi sviluppi di quelle successive (quella seicentesca, che nel seguito, per brevità e chiarezza, indicherò come “seconda”, la cui espressione più coerente è il classicismo francese; quella romantica, o “terza”, legata alla rivoluzione francese e all’industrializzazione; quella di fine Ottocento, o “quarta”, legata al costituirsi degli imperi coloniali e alla crisi del positivismo), ma costituiva una matrice a cui esse avrebbero attinto, ma anche rispetto alla quale avrebbero consumato dei tagli. In particolare, la modernizzazione italiana, con tutti i suoi limiti, con tutto quello che non aveva sviluppato e sarebbe invece stato sviluppato dai due modelli successivi, non implicava il severo taglio fra soggetto e oggetto che il cartesianismo avrebbe operato, con tutte le conseguenze antiterrestri e antiecologiche che esso si porta dietro. Molto più complesso è il rapporto fra la modernizzazione di ‘700 e ‘800 e la cultura rinascimentale: romanticismo e idealismo in fondo riprendono in pieno, accentuandola, la contraddittorietà del modello rinascimentale fra soggettivizzazione e oggettivazione, fra idealismo e panteismo. Quanto alla modernizzazione di fine secolo, essa comporta insieme la messa in discussione di alcuni aspetti del Rinascimento, come la prospettiva, ma anche il ritorno di modelli antimeccanicistici ad esso più vicini.

E con questo ci siamo avvicinati al nostro oggetto, cioè a Croce: poiché la sostanza della sua operazione fu di rimettere al passo la cultura e la filosofia italiana rispetto a quella europea attraverso una complessa ripresa dell’idealismo tedesco.

[continua]