Walter Benjamin: la catastrofe e l'esperienza della festa
Gianluca Viola

22.10.2021

Non è un mistero che il nostro presente sia attraversato da una sensazione assai profonda di angoscia, apparentemente destinata ad accrescersi sempre di più.

Certo, non si tratta di una sensazione così facilmente universalizzabile; né è vero che essa possa essere riferita a tutti gli individui allo stesso modo, né certamente da essi è, in ogni caso, così percepita. Nemmeno nell'umanità occidentale, in cui questa sensazione sembra maggiormente prendere piede, essa appare così accentuata da poter assurgere a sentimento fondamentale dei tempi in cui stiamo vivendo – i proverbiali "tempi interessanti".

Eppure, la nostra esistenza quotidiana assume sempre di più le fattezze di un'impotente attesa dell'imminente catastrofe planetaria: la crisi ecologica ha trasformato la possibilità della "fine del mondo" in una prospettiva tristemente reale e che potrebbe realizzarsi in un futuro non più così remoto.

Per la prima volta nella storia della filosofia, questa possibilità non è più il residuo di un pensiero mitico-religioso gonfio di attese millenaristiche, ma è piuttosto, se così può dirsi, il Grundproblem della nostra epoca; allo stesso tempo, la macchina antropologico-mitologica del tecno-capitalismo continua a produrre le mitologie che strutturano la nostra esperienza sociale, economica e politica concreta: mitologie che, di fronte al Grundproblem, hanno la stessa efficacia che potrebbe avere un ombrello nel bel mezzo di uno tsunami.

Ad emergere al centro della riflessione è, dunque, l'idea di catastrofe, declinata nelle tre diverse estasi temporali: la catastrofe è già avvenuta e stiamo già sperimentando cosa significhi vivere "alla fine del mondo"; la catastrofe sta avvenendo ogni giorno sotto i nostri occhi; la catastrofe avverrà presto, dunque impegnamoci per evitarla!

A me sembra, in realtà, che, nella nostra specifica esperienza di vita nel mondo contemporaneo, continui a valere la nota idea di Walter Benjamin, secondo cui: "la catastrofe è che tutto continui come prima" (W.Benjamin, "Parco Centrale", in "Angelus Novus. Saggi e frammenti", Einaudi, p. 141).

La ripresa del pensiero di Walter Benjamin ci consente di legare insieme, in stretta alleanza, il riferimento alla temporalità della catastrofe e l'esperienza della festa: è noto, del resto, che il tema fondamentale dei maggiori scritti degli anni 30 del filosofo tedesco – a partire dagli straordinari saggi dedicati a Baudelaire, fino al tragico ma vibrante esito delle Tesi di filosofia della storia - è la critica ad una certa visione della storia, propria dello storicismo, che ne cristallizza il movimento in un continuum fondato sull'idea di progresso, che naturalizza il presente storico come oggetto avulso dal passato e, così facendo, lo giustifica a partire dalla sua immanenza.

A differenza dello storicismo, il materialismo storico instaura una particolare relazione con il proprio presente, letto in una vera e propria "costellazione" con il passato. Invece dell'idea di un tempo che scorre omogeneamente nella sua vacuità, recuperando la tradizione teologica ebraica, Benjamin sostituisce il tempo messianico al tempo cronologico, il "tempo-ora" in quanto momento decisivo per la chance rivoluzionaria che il materialismo storico pone in essere.

Attraverso questo accordo tra passato e presente, è possibile far saltare il continuum della storia, giungendo ad un vero "stato d'emergenza" che abbia la forza, attraverso il ricorso all'istanza messianica, di redimere il passato e restaurare una condizione primordiale-utopica precedente all'età moderna e allo sviluppo del capitalismo.

Attraverso la piena trascendenza del messianico e l'irruzione del totalmente-altro – che ricalca i tratti del ripristino di una condizione originaria che allo stesso tempo, però, spinge verso una condizione totalmente nuova – la classe rivoluzionaria assume su di sé la coscienza di questo compito, nell'immanenza della sua azione.

Così scrive Benjamin, riferendosi finalmente alla questione della festa: "La coscienza di far saltare il continuum della storia è propria delle classi rivoluzionarie nel momento della loro azione. La grande Rivoluzione ha introdotto un nuovo calendario. Il giorno in cui ha inizio un calendario funge da acceleratore storico. Ed è in fondo lo stesso giorno che ritorna sempre nella forma dei giorni festivi, che sono i giorni del ricordo." (W.Benjamin, "Tesi di filosofia della storia", in op.cit., p. 84).

Che i giorni di festa siano i giorni del ricordo, significa soprattutto che essi giocano un ruolo fondamentale nella nuova visione della storia presentata da Benjamin: negli scritti su Baudelaire, infatti, il filosofo aveva già distinto il ricordo - fondamentalmente legato ad un rapporto decisivo con il passato, espresso soprattutto dall'immagine baudelairiana delle corrispondences - dalla memoria – che invece ricalca individualmente lo schema storicista di un tempo omogeneo e vuoto in cui il passato è solo un "morto possesso".

La festa, esperienza universale delle collettività umane, interrompe il fluire del continuum quotidiano, segnando uno stacco netto rispetto al mondo dominato dal lavoro e dunque rispetto alla storia.

Un secondo elemento fondamentale dell'esperienza festiva è il forte legame tra la festa e la catastrofe: non solo, in molte culture, la festa esorcizza la paura dell'imminente catastrofe - sia delle catastrofi "individuali", come la morte; sia delle catastrofi collettive, politiche, sociali, come sostengono due antropologi pur molto diversi come Vittorio Lanternari e Victor Turner - , ma essa è connessa all'etimologia stessa della parola "catastrofe", che richiama sempre al rovesciamento, al ribaltamento - questo aspetto è certamente centrale nella lettura del Carnevale, a partire dall'opera di Rabelais, realizzata da Michail Bachtin, anch'essa nella chiave di un marxismo piuttosto eterodosso.

Per dirlo in un'unica formula: la festa esprime, nell'immanenza della sua esperienza, un altro mondo possibile, dall'interno però di un mondo – l'universo quotidiano, il continuum della storia – divenuto impossibile. Il terzo ed ultimo aspetto dell'esperienza festiva che mi preme sottolineare è quello riconosciuto dal mitologo Furio Jesi, il quale ha sottolineato soprattutto l'inattualità, la distanza che intercorre tra l'incapacità dei "moderni" di esperire la festa autentica e la conoscibilità di questa stessa.

Dal suo punto di vista, la dimensione autentica della festa è invisa al mondo moderno e, se non possiamo più fruire di questa, ma allo stesso modo vogliamo conoscerne e ricercarne l'essenza, dovremo allora rivolgerci alle feste degli antichi o alle feste dei "primitivi".

Se le prime non ci consentono, per la scarsità di testimonianze e per la lontananza nel tempo, di ricostruirne l'esperienza festiva, per quanto riguarda le seconde, un certo sapere specifico, l'etnologia – un certo modello gnoseologico – si propone di penetrarne il mistero. L'etnologo, generalmente europeo ed occidentale, porta però con sé l'atteggiamento "civile" adatto alla sua impresa: nell'ordine della sua conoscenza oggettiva, i primitivi in festa sono dei "diversi".

Jesi aggiunge però che "proprio perché la festa è l'acme della loro peculiarità umana, in stato di festa essi posseggono ed esibiscono anche la massima densità, concentrazione della loro umanità universale" (F.Jesi, "Conoscibilità della Festa", in "Il tempo della festa", Nottetempo, p. 78).

La visione dell'etnologo appare dunque sdoppiata: se, da un lato, egli rimane all'esterno della festa, a causa della sua pretesa d'oggettività, dall'altro non può restare indifferente rispetto a quello schiudersi dell'universalità umana che lo reclama tra i "primitivi".

Attraverso l'immersione nella festa dei "diversi" è l'etnologo ad aver introiettato quegli elementi di diversità e ad avere attuato quello spostamento necessario dello sguardo che, nell'esacerbare le differenze tra "selvaggi" e "civili", li riconduce infine ad una sostanziale unità, trasfigurata nello schiudersi di questo momento autenticamente umano.

Jesi introduce, inoltre, in questo contesto il concetto di "macchina antropologica" che fa eco alla sua ben più celebre "macchina mitologica": essa produce modelli gnoseologici che strutturano le visioni dominanti, intorno all'elemento umano, dell'intero universo sociale.

Mentre il "selvaggio" che vive la festa ha la possibilità di accedere a quell'immagine epifanica che essa promette al suo fondo, l'etnologo, in quanto uomo moderno, può avere sempre e solo a che fare con "modelli gnoseologi funzionanti (…) i quali lasciano intendere di contenere al loro centro, come nucleo inaccessibile, primo motore immobile, le immagini epifaniche" (Ibid., p. 104-105). 

Non è ai "selvaggi" che la festa si rivolge - poiché essi posseggono già la visione del mito al di là della macchina che lo occulta nel momento in cui lo evoca – bensì ai "civili", a coloro che distinguono nettamente tra il tempo della storia e il tempo del mito.

Walter Benjamin, secondo Jesi, aveva colto perfettamente questo punto centrale: è perciò che l'istante collettivo che egli prospetta – il cui compito di fermare il continuum del tempo storico diviene l'unica, autentica, possibilità di restituire al soggetto umano la sua integralità - si può raggiungere solo nella scia di questi progressivi spostamenti della coscienza di sé, della propria identità, della propria individualità e del proprio essere risucchiato nei meccanismi della macchina.

Se l'unica possibilità perché l'esperienza della festa possa coincidere con il tempo della rivolta che interrompe il corso storico è "distruggere la situazione che rende vere e produttive le macchine", nessuno come Benjamin ha saputo recuperare l'autenticità dell'esperienza festiva per instaurare, in essa e per il tempo quotidiano, la possibilità sempre aperta di una nuova visione possibile, di una rivolta contro la macchina che, nella società borghese, nega la festa e nega la festosità all'uomo, rendendolo poco più che uno dei suoi innumerevoli ingranaggi e trascinandolo gradualmente verso la catastrofe.

Per concludere, l'evocazione benjaminiana della festa, di fronte all'ipotesi della catastrofe come garanzia del continuum della storia, è retta da un modello della temporalità che è legato all'istante della decisione, all'ingiunzione e al mantenimento dell'apertura di quella "piccola porta" dalla quale può giungere, improvvisamente, come ad estrarre l'epifania dalla catastrofe, il messianico.

Un simile modello - in una riflessione in cui l'elemento della festa è indubbiamente centrale – seppur con esiti del tutto differenti è presente in un pensatore oggi ingiustamente poco frequentato. Parlo di Georges Bataille, sul quale mi sembra assolutamente necessario ritornare.