Vite eccentriche: a partire da Ferruccio Masini
Melania Moltelo

10.04.2021

L’inumano sta tra noi come messaggero di un più reale umanesimo.
Walter Benjamin


Ferruccio Masini ha lavorato a lungo allo svelamento di quell’eccedenza incognita che fa dell’essere umano una variabile permanente, superando il paradigma storicistico che riduce e risolve tutto nella storia, in quella “immagine eterna” che già Walter Benjamin nelle Tesi del ’40 riconosce come suggello di una narrazione dei dominatori. Al senso della realtà, come cardine di una storia razionale che segue la traiettoria della “palla da biliardo”, subentra il senso della possibilità come apertura della realtà alla sua diversificazione: le occasioni – in una prospettiva “antropologica” più efficace – non sono chimere del/nel tempo, ma si presentano come pieghe e interstizi di una realtà in apparenza definitivamente livellata dalla linea retta del progresso.

Masini si è più volte soffermato sulla crisi della soggettività nei termini di una “insicurezza del possesso” come critica all’umanesimo classico-borghese che si costruisce a partire dall’idea di una appropriazione simbolica del mondo. Questa difficile condizione della soggettività si inscrive nell’immaginario moderno e, in particolare, nel campo del linguaggio e delle sue potenzialità parodistiche e auto-distruttive: come scrive il germanista fiorentino, “non ci si lasci scandalizzare se chi va esplorando i recessi di questa soggettività assente o contraddetta o malata o anche puramente congetturale e obliqua sembra incamminarsi su strade lontane dal razionalismo rassicurante di una identità dove tutte le contraddizioni sono espulse o superate”.

Così la scrittura allegorica, messa a fuoco da Masini, che gioca con le divaricazioni tra significante e significato e con le “allusioni” linguistiche che smussano l’intoccabilità del senso del possesso di un linguaggio ordinario, consente un accesso trasversale a universi non ancora tradotti in parola. Si ricordi che l’allegoria, nella lettura di Walter Benjamin, sostituisce all’esclusività del riferimento semantico un flusso intrattenibile di significanti.

Mi piacerebbe soffermarmi allora in particolare proprio sulla raffigurazione masiniana della marionetta come “segno ex negativo di una comprensione altra dell’uomo”, come critica – per dirla con le parole di Ubaldo Fadini in un precedente intervento – “all’identità “piena”, auto-fondata in qualche maniera”, nella direzione di afferrare/ripensare una parzialità. È anche in questa ottica che ci si può riferire al desiderio accecante della Pentesilea, che comporta l’abbandono di ogni sembianza umana, al cui posto si manifesta una smorfia cannibalesca, espressione appunto di quell’immaginario che intensifica il suo portato eccentrico a contatto con la “scrittura per affetti”, in termini deleuziani, laddove l’affetto non è da intendersi come passaggio da uno stato all’altro, ma “come il divenire non umano dell’uomo”. Così i sentimenti si svincolano dall’interiorità di un “soggetto” per essere proiettati su un “campo di pura esteriorità”: la scena nella quale, a detta dello stesso Kleist, confluiscono tutte le “sozzure” e gli “splendori” dell’anima.

Ci sono vie eccentriche, strade di ritorno al Paradiso “da tergo”: bisogna passare attraverso l’inorganico, l’inumano, il mostruoso – questo dice la marionetta di Kleist con una sorprendente modernità. Ci sono ritorni all’informale e al bestiale, non per diventare bestia o “fango originario”, ma per scrutare nel volto negativo dell’umano, nei sotterranei di istinti dimenticati e diversificati, per accedere a nuove creazioni e a nuove partizioni del sensibile. All’uomo borghese come “feticcio dell’uomo” si contrappone l’inumano come quel campo di possibilità devianti, come strategia di ricomprensione dell’uomo come portatore di rinnovamento e come essere costitutivamente di fantasia.

Il saggio di Kleist Sul teatro di marionette appare nel dicembre 1810 sulle colonne dei Berlin Abendblätter, ma probabilmente la stesura risale a due anni prima. Nella piazza del mercato il signor C., primo ballerino dell’opera, viene intravisto dal suo interlocutore tra il pubblico che assiste al teatro delle marionette; C. asserisce che c’è molto per un ballerino da imparare da uno spettacolo simile, rovesciando già la subordinazione di un’arte popolare all’enfasi della danza. Lo stato di innocenza e di grazia che le marionette kleistiane esibiscono è al di qua della coscienza e della riflessione. La marionetta non sa qual è il segreto dei suoi movimenti, pur aderendo completamente a essi. Allo stesso modo, le gambe meccaniche costruite per le danze dei paraplegici consentono un’ampiezza di movimenti limitata, ma così leggiadra da suscitare la meraviglia negli occhi di qualunque spettatore.

La marionetta sta “oltre il principio di realtà”: proprio perché fatta di morta materia e condotta alla danza da una mano esperta, può conoscere la grazia in una esattezza fantastica e sottratta alla legge di gravità. Le marionette possono solo sfiorare il terreno, ma gli uomini necessitano di tastarlo con pesantezza per riposarsi dallo sforzo della danza. Ciò che abbiamo mangiato all’albero della conoscenza, motivo a cui torna ripetutamente Masini con Kleist, ci ha sbattuto in faccia le porte del Paradiso; bisogna compiere un giro intorno al mondo per indovinare una diversa apertura: il frutto assaporato è la riflessione da cui l’Io torna potenziato in un costante rispecchiamento, nel ritrovamento del suo fondo.

Ma la marionetta kleistiana sceglie il percorso inverso, ossia la liberazione da ogni fondamento. L’Io solipsistico e auto-riflesso si dissolve in un essere senza fondamento che ignora qualsiasi distinzione tra soggetto e oggetto, tra sfera corporea e sfera spirituale. Qui il racconto di Kleist incontra la delicata argomentazione masiniana della perdita del possesso come frattura delle croste ideologiche della cultura umanistico-borghese e quella del de-potenziamento di una soggettività “totale” e alleata del dominio della ragione strumentale sulla natura esterna e interna.

Bisognerebbe tornare a sfiorare le cose, come nella danza del congegno sovrumano, invece di incatenarsi a esse per la fame di appropriazione che è il “vizio” originario dell’intelletto. La marionetta descrive la rottura del testo del mondo in geroglifici sparsi e inafferrabili, avventandosi nella regione dell’incerto che sottostà alla conoscenza riflessivo-intellettuale: “ci sono vie che conducono alla ragione che la ragione non conosce”.

Alla freddezza della ragione totalitaria e al suo uso strumentale si sostituisce una ragione sentimentale che, in un ossimoro, è all’altezza di dire la colpa e il dolore: solo così rinascono l’innocenza e la gioia. Chiudo con un bellissimo aforisma di Masini (tratto dai suoi Aforismi di Marburgo): “Il polso leggero della vita che batte: questo è il grande Hofmannsthal. Così la vita medica le sue ferite e si guarisce. Bisogna essere allegri, docili e leggeri”. D’altronde, è anche la scrittura aforistica – sfaccettata e bifronte – a dovere sfuggire alla cattura e agli irretimenti del concetto: un esercizio paradossale di dolcezza affermativa per farla finita con una appropriazione selvaggia.