Una questione preposizionale. Nathalie Quintane e la povertà
Sara Sermini

18.12.2021

"Per i poveri. O non dovrebbe essere magari: verso i poveri? Non sarebbe forse il caso di segnalarla una direzione?"

Si apre con questo interrogativo la seconda parte di Stand up, titolo della recente traduzione italiana [Tic edizioni, 2020, trad. Michele Zaffarano] di due scritti di Nathalie Quintane pubblicati nella raccolta francese Les Années 10 del 2014.

Il primo testo, intitolato appunto Stand up, racconta Una visita di Marine Le Pen in provincia, come si legge nel sottotitolo; il secondo ha invece un titolo meno esplicativo, Le preposizioni, e parla di povertà.

Si tratta di uno scritto, forse non sufficientemente noto, che è in grado di cogliere un nodo centrale del problema della povertà e delle sue narrative (termine che, diversamente da narrazioni, è in grado di mettere in evidenza la sovrapposizione tra estetica e politica).

La domanda che si pone Quintane riguarda il ruolo della mediazione, un ruolo preposizionale, si potrebbe dire parafrasandola. Chi si propone di dare voce ai poveri cosa fa? Parla per loro? E la preposizione per va intesa come al posto loro o per il loro bene? Quintane snocciola un elenco di tentativi preposizionali che dà conto delle diverse posture della mediazione:

"In mezzo ai poveri, per esempio, non va bene, anche se in mezzo a mantiene comunque una separazione – possiamo stare in mezzo a e, allo stesso tempo, essere assolutamente separati, ossia: a fianco; è altrettanto ovvio che possiamo stare a fianco di senza essere allo stesso tempo al fianco di. Direi anzi che il problema è tutto qui. Anche se oggi come oggi ce lo diciamo poco, da parte dei poveri ha un valore tattico e manipolatorio. Quindi, questo, lasciamolo perdere. A me piace con. Di con a me piace la brutalità semplice, la mancanza di smorfiette. Anche con, però, in questa situazione, non va molto bene, perché è chiaro che qui non sto davvero parlando con i poveri. Non c’è in corso nessuna discussione con i poveri".

Anche quando si mettono in piedi delle vere e proprie “discussioni” con i poveri, quando si ricorre ad esempio allo strumento dell’intervista o si realizzano reportage, la situazione non cambia: la questione preposizionale resta latente e circola continuamente nel pensiero di chi si interroga su certe forme di scrittura.

Pensiamo ai più recenti casi, pensiamo a I poveri di William T. Vollmann o a Le vite che nessuno vede di Eliane Brum. Anche nei tentativi di abolizione del “parlare per” in direzione di un “dare voce” concreto, un certo turbamento continua ad aleggiare sul ruolo di mediatori e mediatrici, come mette in luce la stessa Quintane:

"Si dice che basta vivere un po’ tra i poveri per imparare quali siano i loro pensieri segreti. È la scelta di pensiero più comunemente adottata. Prendiamo allora un treno per Marsiglia o per una qualsiasi periferia [...]. Però prima cerchiamo di cancellare le differenze con qualche artificio linguistico, o di abbigliamento. Una volta embedded, possiamo cominciare a prendere appunti e a registrare (in senso proprio e in senso figurato); insomma, a fare il nostro lavoro. Tutto qui. È più o meno quello che mi sto mettendo a fare in questo preciso momento".

In uno scritto del 1902, interrogandosi sulla figura del povero, Simmel mette a fuoco un “tipo sociale” modellato dallo sguardo di un osservatore esterno. In questa prospettiva, il soggetto povero si crea nella relazione con l’alterità; è l’altro ad attribuirgli una posizione, rapportando i propri modi di comportamento con quelli del povero; è l’altro a definirlo nel momento in cui decide ad esempio di soccorrerlo o prestargli assistenza. O ancora, nel momento in cui decide di denunciare pubblicamente le condizioni in cui il povero vive.

La povertà risulta essere dunque relativa, non soltanto in senso quantitativo. Essa non è ascrivibile nei confini di una caratteristica specifica (la fame, l’indigenza, la malattia, la follia, ecc.) e cambia di volta in volta a seconda della descrizione che di essa viene fatta. Il discorso sulla povertà e le sue narrative sono dunque plasmati dallo sguardo di un’alterità, in grado di influenzare la costruzione del soggetto povero e le sue possibilità di emancipazione.

Sulla scia di un simile pensiero, Quintane descrive con ironia la differenza, da lei stessa osservata, tra "i poveri poveri" e "i poveri meno poveri" partendo "dal presupposto che non sappiamo bene cosa siano i poveri":

"Dove vivo io, i poveri meno poveri, cioè quelli che non stanno per strada, scendono per le grandi occasioni dalla loro montagna (è un modo di dire) e se ne vanno raggianti a spendersi i loro soldi al supermercato".

Sulla faccia hanno stampata una specie di meraviglia, di gioia da supermercato, che non deve essere poi tanto lontana dalla soddisfazione (contenuta) che provo io quando, vagando per i reparti, scopro un nuovo prodotto che arriva dall’Italia o dall’Indonesia, oppure una maglietta divertente che costa poco, oppure ancora una bottiglia di vino buono.

Quintane esplicita, con quel sarcasmo rivelatorio che caratterizza la sua scrittura, una questione fondamentale: nel discorso sulla povertà è in gioco il punto di vista, la dialettica tra un osservatore e un osservato, come ha messo bene in luce Pierre Bourdieu nell’introduzione a La miseria del mondo.

La pratica del “dare voce” a chi non ce l’ha – agli “uomini infami”, per citare Foucault – mette dunque in gioco la costruzione del soggetto povero, un soggetto che muta storicamente e socialmente.

Può trattarsi di un soggetto rurale, di un soggetto operaio, di un soggetto marginalizzato, di un soggetto colonizzato o oppresso, di un soggetto escluso dal sistema politico-sociale per le ragioni più svariate: pur nella loro diversità, questi soggetti si definiscono in quanto soggetti poveri nel momento in cui si decide di “dar loro voce”, facendo leva su una loro intrinseca “mancanza” definita dal sistema stesso, ovvero l’assenza di una voce udibile.

Qualunque posizione rivestano mediatori o mediatrici, qualunque sia il grado di mimesi della narrazione, cercare di dar voce ai poveri significa sempre trasmettere "mediated voices", come recita il titolo di uno studio di Roxanne Rimstead, una delle voci più interessanti nell’ambito delle cosiddette Poverty narratives. Emerge dunque con forza la questione preposizionale descritta da Quintane:

"In realtà, che sia per, con, in mezzo a, senza, verso ecc. una cosa è sicura, su almeno una cosa possiamo dirci tutti quanti d’accordo: che se devo proprio parlare per, è solo perché i poveri non parlano, oppure perché i poveri parlano però noi non li sentiamo".

Se è certo che si tratti anche di una questione di ascolto, in gioco c’è anzitutto l’agency del soggetto povero. Inserita nel Dictionnaire des intraduisibles [2004], la voce agency, curata da Étienne Balibar e Sandra Laugier, può essere tradotta in italiano con il sintagma "possibilità d’azione", che tuttavia non rende appieno la complessa relazione tra azione e soggetto, l’appropriazione dell’azione da parte di qualcun altro e la cancellazione dei confini tra attivo e passivo (studiata anche da Daniele Giglioli nel suo Stato di minorità).

Le costruzioni narrative innescate dalla pratica discorsiva racchiusa nella formula “dare voce” dovrebbero essere in grado di determinare le possibilità di azione del soggetto agito, ovvero di colui al quale è data voce.

E tuttavia questo slittamento dall’essere soggetto-agito al divenire soggetto-agente (almeno nella costruzione narrativa) è determinato proprio da una figura di mediazione, avallata da un sistema che in genere impedisce o ostacola la “presa di parola”.

Prendere coscienza di questo fatto non è scontato, come suggerisce Quintane, la quale è in grado di sviscerare una problematica ulteriore, che riguarda il risultato dell’azione, ovvero del “dare voce”.

Supponendo che il mediatore riesca a trasporre sulla carta la parola dei poveri, che interesse avrebbe questa parola per i poveri? Quintane ribalta acutamente la domanda: cosa interessa a chi vuole leggere della povertà?

"Partiamo dal presupposto che abbiamo necessità di essere ragguagliati sui poveri. Noi abbiamo bisogno d’informazioni ed ecco che i giornalisti, gli scrittori, i programmi alla radio e quelli in televisione fanno tutto quello che possono per tenerci al corrente sui poveri. Perché noi abbiamo sete di Sapere sui poveri, noi desideriamo ardentemente sapere come vivono, come dormono, come mangiano e dentro cosa abitano".

Ma noi lettrici o lettori non ci accontentiamo di povertà parziali – ci dice ancora Quintane – vogliamo sentire parlare di poveri “veri”, che vivono situazioni estreme:

"Di poveri a metà, noi non ne vogliamo, noi vogliamo dei poveri interi, dei poveri integrali, dei poveri che siano in grado di farci imparare una volta per tutte che cosa siano i poveri".

È come se ci rifiutassimo di capire che difficilmente riusciremo "a venire a sapere quello che pensano i poveri", allo stesso modo in cui non possiamo capire cosa pensi davvero chiunque.

Quintane mette in discussione con ironia il ruolo del mediatore, il quale, per quanto si sforzi di raccogliere i pensieri dei poveri, non potrà poi che tradurre le loro parole, col rischio di interpretarle per mezzo del pensiero diffuso.

Il lavoro del mediatore è sempre involto in dispositivi di discorso e ingranaggi retorici che cercano di mascherare o arginare il vero problema, esplicitato da Quintane e così parafrasabile: per quanti sforzi voi mediatori possiate fare – includendo ovviamente lei stessa nella schiera – non riuscirete mai a trovare quel che cercate "in quelle teste che vi sono completamente estranee e che non sarete mai in grado di penetrare". Perché non è questo il punto fondamentale.

E allora qual è il punto? Il problema è proprio questo: il punto sfugge; si ha sempre la percezione di un anello che non tiene quando si parla di questioni connesse al “dare voce”, al “prendere parola”, al “togliere voce”.

Quintane, tuttavia, ci suggerisce un’interessante prospettiva d’indagine, invitandoci a considerare la complessità, l’ambiguità e la difficoltà del ruolo di mediazione. E lo fa passando in rassegna, in una vasta gamma di possibilità preposizionali, anche quella di un parlare «contro i poveri»:

"Ma come mettere assieme, allora, questo fatto che i poveri non parlano con quello che abbiamo detto prima, cioè che io stessa li ho sentiti esprimersi al supermercato con dei pensieri da supermercato, oppure per strada con dei pensieri focalizzati sul portafogli, oppure in televisione con dei pensieri da televisione, oppure nei documentari con dei pensieri da documentario. In tutta questa storia, bisognerà capire chi sia davvero il sordo".

L’operazione compiuta da Quintane si spinge sino alle soglie dell’immedesimazione, mettendo in atto un tentativo di riconoscimento di sé nei panni altrui (ma che, come è lei stessa a sottolineare, sono panni che la sua famiglia ha vestito – "essendo figlia di ex-poveri"):"

"Personalmente, se fossi povera, è da questo che mi riconoscerei. Mi riconoscerei dal fatto che tra un libro e un paio di Nike non faccio trac! Mi riconoscerei dal fatto di avere un culo a forma di pallone da calcio e di essere ossessionata dall’idea di mettermi a dieta senza però mai adottare il sistema della carota, continuando così sempre a mangiare le patatine fritte e tutte le altre cose con dentro l’olio di palma".

E procedendo sempre sul livello dell’identificazione, arriva a enucleare un nodo fondamentale del problema della povertà:

"Mettiamo che io sia povera. Dal momento che sono povera, partecipo dell’oggetto. In realtà, dovremmo dire: dal momento che sono un uomo (uomo nel senso di essere umano), partecipo dell’oggetto. E invece quello che stiamo dicendo qui è: dal momento che sono povera, partecipo dell’oggetto a un livello superiore".

Nella consapevolezza di vivere "nel puro presente del consumo", Quintane prova a descrivere il rapporto dei poveri con gli oggetti di consumo: "Se qualcuno graffia quella macchina, è la nostra pelle che ci sta graffiando. Se qualcuno spacca un faro, è la nostra testa che ci sta spaccando". Il tono enfatico del discorso di Quintane-povera confonde lettrici e lettori, ai quali si rivolge direttamente, li lascia perplessi a interrogarsi su se stessi e sul loro ruolo di osservatrici/osservatori, sul proprio sguardo in cerca di una verità ulteriore, magari misteriosa e poetica, di un “mondo pre” che i poveri sembrerebbero poter dischiudere soltanto con la propria presenza:

"[...] ci vedi poeti. Mio malgrado, per te io sono una poetessa. Sono una forma di latenza, una latenza poetica. Qualcosa dentro di me fa rima più che negli altri. Ho un copro musicale e un sacco di altre cose. Mio malgrado, quando cammino, ballo. Quando parlo, le mie parole sono belle, in qualunque ordine le metta. Oppure sono volgari però sorprendono. E poi corro veloce. Tu sai che corro molo più veloce degli altri [...]".

Il problema a questo punto si condensa in un prefisso e non più in una preposizione, ovvero nella particella pre: lo sguardo di mediatori e mediatrici è condizionato da questo prefisso, basti pensare alla ben nota concezione che vede nei contadini il residuo di una condizione premoderna.

In questo prefisso è dunque condensato il rischio di descrivere il soggetto povero come qualcosa di anteriore alle sue manifestazioni. Se si tratta di una questione pre-posizionale è forse perché chi si accinge a descrivere la povertà ha preso posizione già prima di osservarla?

Quintane solleva questo problema nella riflessione che compie trasponendosi nel ruolo di una povera, per finire nuovamente incagliata nel problema stesso. Ciò accade nel momento in cui si accinge a descrivere la "città dei poveri" sempre dal presunto punto di vista di una povera:

"La descrizione [della città dei poveri] la iniziamo animati da una tale empatia, da un tale desiderio di diminuire, di ridurre e di annullare lo scarto tra noi e loro, di porci nell’ottica di ridurre questo scarto tra noi e loro allo spessore di un foglio di carta, allo spessore di una cartina per le sigarette, che finiamo per diventare poveri anche noi e per berci la nostra bella birra di toro dentro la stessa frase del culo a forma di pallone da calcio. Ecco, appunto, è esattamente quello che è appena successo".

"Diventare poveri anche noi" significa tentare di appropriarsi di un linguaggio che non ci appartiene, quella "difficilissima lingua del povero" di cui parlava Amelia Rosselli è difficilissima proprio perché inappropriabile, e lo è perché corrisponde forse a un’idea falsata che ci siamo fatti, un’idea pre. "È evidente che non è così che i poveri parlano, o sono; da questo punto di vista, fallimento su tutta la linea", afferma infine Quintane.

Se la risposta al Can the subaltern speak? di Spivak era negativa, la domanda che sembra porsi Quintane modulandola sulla scorta del pensiero gramsciano-spivakiano – Can the mediator speak for the subaltern? – conduce a un replica altrettanto negativa.

E tuttavia vale forse in entrambi casi il fatto che si tratta di interrogazioni continuamente feconde. Non ci si stanca mai di "capire e di sapere" cosa sia un povero, ci dice Quintane, pur nella consapevolezza (spesso autobiografica, come nel suo caso) che "se davvero riusciamo a raccontare cosa sia un povero è solo perché non siamo più completamente poveri", anche ponendo il caso di appartenere "alla classe degli intellettuali precari usciti dai ranghi e declassati dall’alto".

Leggendo Quintane si ha la netta sensazione che il problema, cacciato dalla porta, rientri ingombrante dalla porta stessa ma completamente messo a nudo attraverso una lingua esplosiva, capace di muoversi tra registri diversi, di rompere la sintassi, creando vie di fuga nelle crepe della lingua delle classi medio-alte, di "periodi e lessico tipizzati [...] pensiero costruito ritmo serrato ben scandito in chiusa, alla latina" (cito qui da Pomodori, a cura di M. Zaffarano, Tic edizioni, 2021).

Attraverso una lingua performativa che “espone” letteralmente le problematiche connesse al discorso sull’agency del soggetto povero, al ruolo della mediazione nonché al problema della “lingua del povero”, Quintane schiude la possibilità di un nuovo pensiero sulla povertà.