Una nota su L’individualità ai margini dell’impero neoliberale di Evelina Praino
Salvatore Spina

22.07.2021

Comprendere il presente da un punto di vista storico, politico, economico e filosofico significa confrontarsi in maniera dirimente con il neoliberismo e con le sue forme di attuazione. Che sia l’ambito del lavoro, che ci si occupi di istruzione, che si ponga l’accento sulle relazioni interpersonali, oggi ci troviamo esattamente nel punto in cui il neoliberismo è diventato la forma di razionalità dominante e onnipervasiva. Parafrasando Mark Fisher, potremmo dire che è più facile pensare la fine del mondo che pensare il mondo al di là della Weltanschauung neoliberista.

Eppure, c’è dell’altro; c’è un punto di fuga, un punto di decompressione. È questa la sfida a cui ci chiama il complesso volume L’individualità ai margini dell’impero neoliberale di Evelina Praino. Infatti, se, da un lato, il testo si presenta come il tentativo di allestire foucaultianamente un’ontologia dell’attualità, mettendo in evidenza i tratti precipui che hanno fatto della nostra realtà lo spazio di dispiegamento dell’impero neoliberale, dall’altro, invece, l’autrice indica, segnala, accenna ad alcune possibilità attraverso cui pensare un altrove; un momento atopico che si coaguli intorno a un termine, un verbo spesso abusato, talvolta travisato ma dal significato ancora importante e tutto da decifrare: resistere.

Nella prima parte del volume, che si compone di due capitoli, l’autrice allestisce un’indagine dell’impero neoliberale, il quale trova nei concetti di razionalità e di biopolitica i pilastri concettuali attraverso cui ergersi.

Come accennato, il neoliberismo, in quanto “funzione interna della razionalità governamentale contemporanea” (p. 29), non costituisce esclusivamente una delle forme attraverso cui si dispiega il nostro essere-nel-mondo contemporaneo. Non ci troviamo di fronte a una scelta possibile e contingente. Il suo carattere performativo e ipertrofico fa in modo che esso informi in maniera pressoché totale ogni forma di vita; anche e soprattutto laddove esso appare meno evidente mostrandosi quasi nella ritrazione.

Nell’analisi del neoliberismo, dunque, si slitta da un discorso meramente politico a un ambito antropologico e, in qualche modo, ontologico. L’impero neoliberale, come mostra bene Praino, non si dà esclusivamente come una forma di governo tra le altre, né assume l’aspetto di una ragione esclusivamente economica. Parafrasando Heidegger, il secondo Heidegger, potremmo dire che il neoliberismo è la forma di dispiegamento dell’Essere nell’epoca contemporanea. Una decisione fondamentale dell’Essere che coinvolge in maniera totale e ipertrofica ogni aspetto della realtà, tanto da risultare pienamente aderente all’essere stesso e a quell’ente che con l’essere ha un rapporto privilegiato: l’uomo.

Ecco, allora, che si comprende meglio la connessione dirimente tra soggettivazione e assoggettamento che prende forma nell’epoca del dominio del potere neoliberista. Assoggettamento e soggettivazione sono in questo contesto le facce di una stessa medaglia; ogni forma di assoggettamento, come insegna Foucault, porta con sé l’ombra riflessa di una nuova forma di soggettivazione; e, per converso, ogni forma di soggettivazione retroagisce sui presupposti dell’assoggettamento modificandoli.

Un discorso del genere sembrerebbe richiamare i presupposti teorici della modernità, in cui era dominante per lo più il paradigma sovrano. In fondo la grande costruzione teorica del Leviatano si comprende proprio in virtù della connessione tra assoggettamento e soggettività. Ma con l’impero neoliberale avviene uno slittamento di paradigma, ponendoci di fronte a quella biopolitica che costituisce la cifra ermeneutica per comprendere la nostra contemporaneità. Non è più la soggettività, o meglio, non è solo la soggettività nella sua forma asettica e ‘logico-giuridico’ a costituire l’oggetto di attenzione del potere; bensì la vita nel suo tellurico e vorticoso dispiegarsi diviene la posta in gioco di ogni discorso.

Razionalità governamentale, neoliberalismo e biopolitica costituiscono, dunque, i vertici attraverso cui si gioca la triangolazione ermeneutica allestista da Praino per decriptare i tratti precipui della condizione politica, antropologica e ontologica attuale.

Una descrizione del genere lascerebbe presupporre l’ineluttabilità del trionfo di una visione economico-politica di stampo neoliberista. Ed effettivamente le cose stanno proprio in questo modo. Tuttavia, come emerge dal titolo del volume di Praino, c’è sempre qualcosa al margine, un quid che sfugge e resiste; c’è, come insegna Agamben, sempre un resto che scompagina, profana l’ordine con il suo semplice restare.

È quella ‘resistenza possibile’ che l’autrice affresca nelle ultime pagine del suo volume prendendo come punti di riferimento, da un lato, le pagine del Comitato Invisibile, un collettivo anarco-insurrezionalista francese, che a partire dall’esperienza delle rivolte del 2005 nelle banlieues parigine ha allestito, combinando teoria e prassi, un proprio programma politico di resistenza, e dall’altro, l’opera del filosofo e psicoanalista argentino Miguel Benasayag, la cui ‘militanza situazionale’ rappresenta un punto di vista inedito per pensare e vivere una politica rivoluzionaria.

Per concludere, vorrei citare un passaggio, per me significativo, del testo di Praino che, combinando contenuto e forma, ci fornisce il senso e il valore di una operazione teorica del genere: “Ogni relazione di potere suscita, esige e apre continue possibilità di resistenza e […], in quest’ottica, ogni intervento pensato, che si inserisca in un progetto di opposizione al potere, indipendentemente dalle istanze che lo muovono e dall’esito politico che raggiunge, può essere considerato resistente” (p. 117).