Una gran bella storia
Franco La Cecla

10.07.2022

Il testo che segue è l'Introduzione scritta da Franco La Cecla al volume di Marshall Sahlins Cosmologie del capitalismo


Claude Levi-Strauss, quasi centenario, aveva scritto un elogio di Marshall Sahlins che rimane esemplare:

Per illustrare il dono di Marshall Sahlins per le sintesi, ricorderemo come la sua interpretazione dei fatti storici in Polinesia gli ha permesso di superare la spesso mal posta dicotomia tra struttura ed evento. Oggi che l’antropologia è tentata dal post-modernismo, costruttivismo etc., nei suoi scritti come nelle sue parole, Sahlins ha sempre saputo come mettere l’antropologia sulla pista giusta. Adesso svetta come un saggio tra gli antropologi, forse l’ultimo rimasto, la qual cosa dà ancora più valore alle sue raccomandazioni.

Che uno dei padri dell’antropologia abbia riconosciuto in lui un pari merita una spiegazione, almeno per il pubblico italiano. Marshall Sahlins ha compiuto nella sua incredibilmente fertile vita un’opera unica nel suo genere: ha scavalcato il determinismo in cui le scienze umane e la storia erano intrappolate dal dopoguerra e ha elaborato una nuova teoria dell’azione umana. Ha creato un’antropologia storica e una storia antropologica, e lo ha fatto a partire da un lavoro dettagliatissimo sul campo e sugli archivi alle isole Figi e a Tahiti e nell’intera area polinesiana.

Provenendo da una doppia formazione immersa nella rilettura e nella critica di Marx a opera di Karl Polanyi e nell’atmosfera fertile della Francia post-strutturalista, ha traghettato la storia verso un tipo diverso di attenzione e di pratica. Laddove in Italia la storia è stata rinnovata dalla microstoria di Carlo Ginzburg, ma non ha subito alcun ripensamento dell’impostazione teorica, quella che definisce la relazione tra ambiente, cultura e individuo, Sahlins ha lavorato tutta la sua vita alla costruzione di una nuova prospettiva. Non è un caso che in Italia il suo contributo venga relegato agli addetti ai lavori in antropologia e sia quasi completamente sottovalutato dai nostri storici. Forse perché siamo ancora vittime di un approccio “sacro” alla lettura marxista e post-marxista della storia che ci impedisce di rinnovare gli strumenti di ricerca. Chissà se il pessimismo di cui è pervaso il nostro paese rispetto al presente non sia anche dovuto a questo ritardo di ricerca e di analisi. Marshall Sahlins ha liberato la lettura dell’azione umana dal fatalismo deterministico, incapace di comprendere la natura simbolica che costituisce il modo di agire delle comunità e degli individui entro circostanze ambientali, economiche e storiche.

Non a caso negli ultimi anni aveva insistito sui danni di una visione “leviathanistica” della storia, dove al mostro hobbesiano si sostituisce la bestia invincibile del capitalismo e della globalizzazione, di una lettura fondamentalmente razzista del colonialismo dove ai colonizzati viene assegnato sempre e soltanto il ruolo di vittima e mai quello di agenti della propria storia.

Nel 2016 un gruppo di allievi di Marshall Sahlins, in gran parte maturi professori e ricercatori, gli aveva dedicato un bel testo, A Practice of Anthropology. The Thought and Influence of Marshall Sahlins (La pratica dell’antropologia. Il pensiero e l’influenza di Marshall Sahlins), a cura di Alex Golub, Daniel Rosenblatt e John D Kelly. A questo testo avevano apposto l’elogio di Levi-Strauss.

Nel 2016 Sahlins non era né in pensione né in panchina; stava producendo insieme a David Graeber il monumentale saggio sulla sovranità On Kings (Il potere dei re. Tra cosmologia e politica) e stava lottando in maniera efficace contro l’infiltrazione del Confucius Institute all’interno delle università americane e soprattutto della Chicago University. Il libro a lui dedicato dai suoi allievi rimane però una pietra miliare per capire l’importanza e l’influenza del maestro. Sahlins comprendeva in sé una vastissima formazione antropologica, archeologica, filosofica, economica, storica e un attivissimo lavoro sul campo come oceanista. A questo aggiungeva una vocazione per la ricerca d’archivio – nelle isole dei mari del Sud – che gli derivava dalla formazione nella Francia di Foucault e degli “Annales”.

I suoi allievi sintetizzavano così le premesse dell’enorme lavoro di ricerca e produzione di Sahlins:

[…] come riuscire a concepire la cultura [quale] allo stesso tempo un epifenomeno di una sottostante struttura economica e una forza autonoma in grado di determinare la vita sociale e di modellare profondamente l’azione umana?

Per Sahlins la Polinesia offriva un laboratorio naturale per testare le teorie sull’evoluzione sociale e culturale perché la cultura degli argonauti polinesiani era una variabile indipendente, mentre l’ambiente in cui essi erano installati variava da isola ad isola. Qui la struttura sociale si era adattata funzionalmente all’uso tecnologico dell’ambiente.

In uno scritto del 1960, L’origine della società, Sahlins sosteneva che l’approccio comparativo alla sociologia dei primati insieme alle scoperte dell’antropologia suggerivano una conclusione sorprendente: il modo con cui la gente agisce e probabilmente ha sempre agito non è espressione inerente a una “natura umana” […] la vita sociale umana è determinata culturalmente, non biologicamente”. Era un riferimento a Karl Polanyi e a Leslie White – di cui si sentiva allievo – che contrastava il credo americano sulla naturalezza dell’individualismo e del mercato. Criticava la famosa teoria hobbesiana della “guerra di tutti contro tutti” sostenendo che nulla è più lontano dall’evidenza storico-antropologica. Anzi, per lui i primati non umani sono più vicini a questa realtà, mentre gli umani hanno inventato mille forme di collaborazione e reciprocità, prima tra tutte i legami di parentela.

Sahlins sintetizzerà molto più avanti le sue riflessioni sull’argomento in due testi: The Western Illusion of Human Nature (Un grosso sbaglio. L’idea occidentale di natura umana) nel 2008 e What Kinship Is – And Is Not (La parentela: cos’ è e cosa non è) del 2013.

Da oltre duemila anni, coloro che chiamiamo “occidentali” vengono periodicamente tormentati dallo spettro del proprio essere interiore. È la manifestazione di una natura umana talmente avida e litigiosa che, se non viene governata in qualche modo, può far precipitare la società nell’anarchia. In linea generale, la scienza politica di questo riottoso animale ha oscillato tra due contrastanti forme: la gerarchia o l’uguaglianza, l’autorità monarchica o l’equilibrio repubblicano; in altre parole, un sistema di dominio capace (idealmente) di contenere il naturale egoismo delle persone mediante un potere esterno, oppure un sistema autoregolato di poteri liberi ed eguali la cui reciproca opposizione è (idealmente) in grado di riconciliare interessi privati e interesse collettivo […].

Mi sentirei comunque di affermare che né quella cinese, né qualsiasi altra tradizione culturale eguagliano quel profondo disprezzo per l’umanità proprio dell’Occidente, per il quale l’innata avidità umana trarrebbe la sua motivazione dalla supposta antitesi tra natura e cultura.

Questa critica radicale alle impostazioni individualistiche e pessimistiche che per Sahlins cominciano da Tucidide e vanno fino alle ideologie del capitalismo, da Thomas Hobbes a Bernard de Mandeville e ad Adam Smith, affonda nel tessuto fertile della formazione parigina, in cui Sahlins cerca di riconciliare marxismo e strutturalismo, il materiale e il simbolico.

La sua competenza archeologica lo spinge a occuparsi del fatto che i “cacciatori raccoglitori” avessero più tempo libero perché le loro culture non erano basate sull’dea dell’infinito bisogno. In Età della pietra, età dell’abbondanza inverte l’immagine di un primitivo stato di permanente carestia e disperazione e porta l’evidenza dei dati storici a questo proposito; ma aggiunge che la verità di questi dati è oscurata dall’ideologia di coloro che ne hanno scritto finora, dimostrando quanto la cultura di questi – l’aspetto simbolico della loro ideologia – abbia più peso dell’evidenza. Il testo Stone Age Economics (L’economia dell’età della pietra) del 1980 segna una rivoluzione nella lettura dell’evoluzione e della preistoria e apre un dibattito che coinvolge le nuove sensibilità ecologiche e anche le conoscenze e le esperienze dei mondi indigeni.

Sahlins ribadisce che è la cultura che determina l’azione umana, non gli appetiti o il calcolo utilitario individuale. Ma cosa determina la cultura?

In Cultura e ragione pratica, uscito quattro anni prima di Stone Age Economics, Sahlins aveva chiarito che l’ambiente non è né un determinante specifico né una sufficiente spiegazione.

Se la ragione pratica non determina in toto la cultura, la stessa ha una sua forza indipendente. Qui entra la critica che Sahlins fa a Jürgen Habermas, György Lukács, Reginald Radcliffe-Brown e Bronislaw Malinowski, ma soprattutto a Karl Marx. Mentre negli stessi anni i suoi colleghi ritengono che bisogna essere sia materialisti che idealisti, Sahlins sostiene che una teoria aggiornata della cultura deve trascendere questa opposizione. In The Use and Abuse of Biology. An Anthropological Critique of Sociobiology attacca l’ingenuo materialismo della sociobiologia e “straccia” la lettura del cannibalismo fatta da Marvin Harris: “Il cannibalismo è sempre simbolico anche quando è reale”. Qualunque ruolo energetico il cannibalismo abbia avuto nella dieta umana, non è sufficiente per spiegare le forme elaborate che ha preso. Ma se l’evidenza dimostra che il cannibalismo non è solo il risultato di necessità dietetiche, perché Harris vi insiste? Sahlins risponde: per motivi simbolici, per il suo profondo utilitarismo.

L’altra critica radicale è quella che affronta l’inadeguatezza dello strutturalismo nel testimoniare l’azione individuale. In un’opera del 1981 Anahulu. The Anthropology of History in the Kingdom of Hawaii, sulla storia del regno delle isole Sandwich, Sahlins sostiene che si tratta di andare oltre Leslie White e Michel Foucault che sembrano escludere l’azione e le pratiche individuali, tranne quando siano proiezione o esecuzione di un sistema. Jean-Paul Sartre gli darà l’occasione per sferrare un attacco ancora più a fondo contro il determinismo strutturalista. Alla domanda di Sartre se sia possibile costruire un’antropologia strutturalista, Sahlins, riprendendo l’affermazione dello stesso Sartre secondo cui “l’uomo è caratterizzato dalla capacità di andare oltre una situazione”, risponde che la vita in una società non è un’automatica genuflessione di fronte a un essere superorganico, ma un continuo rimaneggiamento delle categorie da parte di un progetto di personalizzazione. Qui si sente l’influenza di Pierre Bourdieu, ma ancor più di Fernand Braudel. Per questi la storia è un procedere a diverse velocità che va dall’azione dei sovrani alle derive geografiche, climatiche; ci sono cause dirette ma anche contingenze imprevedibili.

Per Sahlins si tratta di reintrodurre l’evento, la cui unicità è dovuta a una particolare congiuntura ambientale che crea lo spazio per l’azione di differenti culture e attori. Qui entra in gioco la sua competenza specifica di oceanista. È, infatti, studiando le isole del Pacifico che Sahlins scopre come esse abbiano “una storia” e non siano soltanto colonie dell’Occidente. Il contatto è avvenuto da entrambe le parti. Influenzato dagli storici oceanisti come James Davidson e Dorothy Barrère, Sahlins mostra (come fa nel testo che avete tra le mani) che gli hawaiani non resistettero, né furono sottomessi al colonialismo. Piuttosto interpretarono l’imperialismo occidentale in un modo specifico alla loro cultura e lo integrarono nel proprio sistema con conseguenze che non sarebbero state prevedibili in base alle forze esterne. Una volta di più, nel leggere la storia delle isole del Pacifico, come dice Sherry Ortner, Sahlins costruisce una “teoria della pratica”.

Sono proprio le critiche che gli arrivano sulla lettura delle vicende di Capitan Cook a dargli uno spunto ulteriore. A Gananath Obeyesekere, che lo accusa di lettura orientalista e neocolonialista, risponde nel 1995 con How “Natives” Think. About Captain Cook, For Example (Capitan Cook, per esempio. Le Hawaii, gli antropologi, i “nativi”), in cui ribalta il punto di vista dimostrando che è proprio una visione passivista e vittimista dei popoli colonizzati a essere prodotta da un’ideologia occidentale.

Negli anni ’90 Sahlins si occuperà di Cina e di un’antropologia della modernità. Nel volume che avete tra le mani c’è il saggio che gli verrà ispirato da una visita a Pechino: quello che racconta l’assoluta mancanza di interesse dell’Imperatore cinese nei beni dell’Occidente. Nel caso delle culture del Pacifico e degli indiani della British Columbia, l’impatto con il capitalismo venne mediato da preesistenti cosmologie. I beni occidentali interessavano ai regnanti nelle Hawaii e agli indiani per differenti motivazioni. Il capitalismo globale fu sempre compreso localmente e esso stesso trasformato dall’incontro con le logiche locali.

L’idea del capitalismo che ingloba e devasta tutto il resto del mondo è battezzata negli anni ’90 da Sahlins come pessimismo sentimentale, parte di una più vasta despondency theory, di una teoria dello sconforto – come la chiama Sahlins giocando sul suono di dependency theory –, ossia l’idea che le culture indigene non abbiano alcuna speranza. Al contrario, Sahlins parte dai dati etnografici in Alaska, Papua e altri luoghi per mostrare che vi è una crescita dell’indigenizzazione della modernità, tale per cui i popoli indigeni usano i materiali della globalizzazione per diventare più sé stessi di prima.

Nei primi dieci anni del 2000, in epoca di occupazione americana in Iraq, Sahlins paragona la guerra del Peloponneso descritta da Tucidide con la guerra in Polinesia condotta dai figiani. Queste guerre di tutti contro tutti non sono il risultato di uno stato di natura, ma di caratteri specifici di alcune culture del dominio. Dice: “Ci vuole molta cultura per creare uno stato di natura”. In Apologies to Thucydides. Understanding History as Culture and Vice Versa Sahlins sostiene che Tucidide non comprende che il conflitto costruito dai Greci aveva a che fare con una specifica cultura in cui onore, orgoglio, talassocrazia, dominio del mare giustificavano qualunque atrocità. Il realismo di Tucidide è solo una maniera di nascondere una specifica sete di dominio sotto le apparenze di una realpolitik. È quello che vien battezzato da Sahlins come leviathanismo, una giustificazione a posteriori, una afterology di cui il pensiero di Michel Foucault è intriso al pari di quello di Tucidide e di Hobbes: questo vedere il potere dappertutto e la storia come un cappio deterministico.

Negli stessi anni Sahlins dirige una collana di pamphlet per la Chicago University Press, dal provocatorio e spinoso nome “Prickly Paradigm Press”. Interviene sui giornali americani in maniera forte contro gli antropologi che accettano di essere “embedded”, di partecipare alla guerra in Iraq per dare consigli agli occupanti americani. Nella sua natura, come raccontano i suoi allievi, ci sono una grande tolleranza e apertura, ma allo stesso tempo Sahlins pensa che la missione di un ricercatore e intellettuale sia battersi contro idee, atteggiamenti e istituzioni che gli sembra manifestino tendenze antidemocratiche e derive autoritarie. Questa vena polemica affonda però sempre nella rinnovata ricerca sul potere e sui modi con cui le società se ne difendono o se ne servono.

Il lavoro sulla sovranità che Sahlins costruirà con David Graeber si inserisce in questo contesto nel voler dimostrare la natura culturale della regalità, il fenomeno di un re straniero, esogeno, usurpatore del potere degli autoctoni, che si ritrova sia in Polinesia sia nelle culture Indoeuropee e africane. La politica qui appare come un aspetto della cosmologia, non come l’espressione spontanea di qualcosa che nasce dalla natura della società o dell’uomo. I due corollari di questa ricerca sono l’esotismo come qualcosa presente in buona parte delle società, la ricerca e l’attribuzione di valore a qualcosa di esterno e di remoto. Il che, per altro, significa che la concezione che vede le società come entità chiuse va contro l’evidenza della loro costante apertura alle influenze esterne.

Mentre lavorava con Graeber alla fenomenologia della sovranità, Sahlins ribadiva nel suo pamphlet sulla parentela che l’alterità è una costante nelle società umane, la reciprocità come chiave della costituzione dell’identità personale e collettiva. Contrariamente all’idea di individualità tipica dell’Occidente, l’importanza dei legami costruiti sulle reti di parentela dimostra che esiste una “dividualità”, una dipendenza e una mutualità. L’uso dell’alterità nella vita religiosa, economica e politica si basa su un’esperienza profonda e primaria dell’umanità, quella di una partecipazione intrinseca alla vita gli uni degli altri.

Oggi dobbiamo fare i conti con l’incredibile eredità che Sahlins ci lascia, quella di non arrenderci a una visione della storia in cui i potenti sono fatalmente i vincitori. L’antropologia e l’antropologia storica ci insegnano che una certa lettura meccanicistica altro non è che l’ideologia con cui i potenti si autogiustificano e si auto-assolvono.


© Marshall Sahlins , Cosmologie del capitalismo, Meltemi 2022