02.06.2024
Vattimo è stato sicuramente un pensatore eclettico, plastico, duttile, multiforme al limite del sospetto. Muovendo i primi passi tra estetica ed esistenzialismo, ha spaziato da posizioni marxiste a tendenze, volutamente o meno, nella storia degli effetti più apologetiche nei confronti della razionalità neoliberale, sino a prospettive ibride negli ultimi anni, addirittura con forti tinte di cristianesimo. Oggi, agli atti della sua scomparsa, ci si potrebbe chiedere, con un certo slancio: qual è il significato della sua riflessione? Cosa significa per noi? Che è già sempre un: che cosa possiamo farcene? Come diceva Deleuze, l’insieme di un pensiero è essenzialmente la forza che lo sospinge, che ne articola i momenti, ne sforza i passaggi da un piano all’altro (G. Deleuze, Pourparlers, Les Éditions de Minuit, p. 116). Ora, per Vattimo vogliamo qui avanzare la tesi che ciò che sembra massimamente aver prodotto questi costanti slittamenti, distribuito gli elementi e modulato le discontinuità, è essenzialmente questo: l’inquietudine radicale, sofoclea, presentita innanzi al progressivo dissolvimento del fondo irrimediabilmente enigmatico della realtà. Quella scomparsa, quel “delitto perfetto”, per dirla con Baudrillard, che cingendo il mondo in una presa cognitiva e mediale totalizzante, lo rende difatti simulacrale, strappato alla profondità tutta negativa del significato. L’epitome di quella dialettica dell’illuminismo che però, con Nietzsche e Heidegger, e contro i francofortesi, Vattimo vede ormai sguarnita di qualsiasi appoggio per un ipotetico quanto disperato rilancio su basi umanistiche in seno ampio. In questa condizione, alla soglia della postmodernità, quando tutto è visibile e al contempo ingestibile, museificato e denegato, il pensiero allora si trova costretto ad una metamorfosi radicale, ad assumere una nuova forma, a caratterizzarsi come un’attività ben più liminare, residuale; esso assume allora lo statuto di critica
Poiché la filosofia, in quanto pratica critica, è sempre ingaggiata in un processo inesausto non tanto (e non più) di superamento – categoria concettuale tipicamente moderna e orami agli occhi di Vattimo completamente esauritasi –, quanto piuttosto di smottamento, di disarticolazione di quella modalità del disvelamento, come Heidegger definisce il Gestell, che è invero il luogo concreto ove si giocano le possibilità della contemporaneità; di quel reale che si va via appiattendo, di nuovo con Baudrillard, su di una Realtà Integrale, una dimensione del darsi delle cose inesorabile quanto insopportabile (ad es. J. Baudrillard, Il Patto di lucidità o l’intelligenza del Male, Cortina, Milano, 2006). Un lavoro, questo, che, non esaurendosi mai in un’istanza puramente “critico-sospensiva” (G. Vattimo, Dialoghi con Nietzsche. Saggi 1961-2000, Garzanti, Milano, 2000, p. 269), si caratterizza piuttosto – volendo attenersi ancora ad un lessico heideggeriano, sicuramente più confacentesi alla sensibilità intellettuale di Vattimo – in quanto attività di riapertura di uno spazio riflessivo – che però per noi può essere subito azione – alternativo al mero calcolo, allo strapotere dell’ente sull’essere, inteso in quanto fenomeno storicamente situato e gravido di conseguenze sull’instaurarsi stesso di rapporti di dominio, controllo, oppressione o sorveglianza che siano. La critica, dunque, non come “re-azione al ri-sentimento” ma piuttosto come “espressione attiva di un modo attivo di esistere” (G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia e altri testi, tr. it. di F. Polidori e D. Tarizzo, Einaudi, Torino, 2017, p. 5)
E se comunque in essa sembra sempre trattarsi più a fondo di metafisica e fine della storia, ben più che di critica, media o pratiche, ciò è dovuto al fatto che lo stesso lavoro sul profilo più propriamente ontologico, apparentemente affatto astratto e autoreferenziale, non fa altro che paradossalmente reclamare per sé la natura spuria, costitutivamente compromessa dell’essere, giacché uno dei tratti essenziali “di gran parte della filosofia otto-novecentesca che rappresenta la nostra eredità più vicina, è proprio la negazione di strutture stabili dell’essere, alle quali il pensiero dovrebbe rivolgersi per «fondarsi» in certezze non precarie”. L’essere e i suoi profeti si scontornano, disciolti nella discontinuità infinita della storia, in un’ontologia che conosce solo l’”evento”, cosicché “l’essere non è nulla al di fuori del suo «evento», che accade nel suo e nel nostro storicizzarsi” (G. Vattimo, La fine della modernità, Garzanti, Milano, 1998, p. 11). Un’ontologia che sarà immediatamente, senza soluzione di continuità, ontologia politica, ove riflessione e prassi, essere ed azione si incrociano in quella regione intersezionale per essenza decentrata, che “non si riferisce alla zona dell’essere che ha a che fare con la politica, ma alla relazione essenziale che congiunge essere e politica” (R. Esposito, Pensiero istituente. Tre paradigmi di ontologia politica, Torino, Einaudi, pp. VII-VIII). Un’area d’innesto, d’incessante ibridazione, in cui al di fuori dell’ortodossia filologica possono incrociarsi Nietzsche e Benjamin, sovrapporsi Heidegger e Gehlen, rapinarsi Bloch, Adorno, Marx e Sartre. In cui tutti questi possono non essere altro che il mormorio impersonale che anima ogni sapere, il “si parla” di Blanchot e di Foucault (G. Deleuze, Foucault, tr. it. di P. A. Rovatti e F. Sossi, Napoli, Cronopio, 2009, pp. 20-21, 32-33).
È in ragione di questa commistione tra riflessione e prassi, per cui il pensiero è sempre evento storico, culturale, determinato, e quindi intrinsecamente politico in senso ampio ed extra-rappresentativo; insomma, è proprio perché il pensiero è sempre critica che si può dire anche che la fine della storia, la condizione post-istoriale e post-moderna della contemporaneità sono state oggetto di così ampia attenzione nei lavori di Vattimo, soprattutto in sede di formulazione del cosiddetto “pensiero debole” (P. A. Rovatti, G. Vattimo (a cura di), Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano, 1995, Premessa). E di qui ugualmente lo scostamento da Gadamer, che pure fu suo maestro, in nome del carattere surrettiziamente intellettualistico della sua ontologia ermeneutica, rea dell’oblio del “problema dell’unità di teoria e prassi come problema” (G. Vattimo, Le avventure della differenza, op. cit., p. 38).
Infatti, quell’"un'ambiguità teorico-pratica” di cui Vattimo parlava riferendosi all’eterno ritorno nietzschiano (G. Vattimo, Il soggetto e la maschera. Nietzsche e il problema della liberazione, Bompiani, Milano, 1994, p. 198) è infondo per lui nient’altro che il carattere stesso della filosofia, sempre investita di un mandato etico quanto sapienziale; sempre giocata tra esistenza e pensiero, e per questo fatto stesso, costitutivamente allegorica in senso benjaminiano (ivi., pp.171-178), sfuggente, enigmatica appunto. Inafferrabile, frammento di un mosaico che non risponde alla linearità delle logiche di corrispondenza referenziale del sistema. Perché se la filosofia, contro il passo cadenzato e di misura della scienza, non può che procedere per salti (F. Nietzsche, La filosofia nell’epoca tragica dei greci e Scritti 1870-1873, tr. it. di G. Colli, Adelphi, Milano, 2014., pp.152-153), allora “il cogliere l’enigma è un salto” (M. Heidegger, Nietzsche, a cura di F. Volpi, Adeplhi, Milano, 2018, p. 245); quel salto che ci restituisce alla possibilità di fare dell’inesauribilità del reale, dell’impossibilità della sua trasparenza, un’occasione, un luogo da abitare.
Forse il pensiero può divenire allora un idioma parodico, un ventriloquio senza ventriloquo, sintassi dell’irraggiungibile, sforzo inesausto di misurarsi con ciò che non può essere avuto per definizione e, assieme, turpe esibizione di questo rapporto. Lo “spazio accanto” entro il quale, una volta divaricatisi in principio logos e musica nella rapsodia, “s’insedia la prosa” (G. Agamben, Profanazioni, Nottetempo, Roma, 2005, p.42). La filosofia può essere una “logica del silenzio” (ivi., p.54), riproducendo nel proprio andamento interno quello che la contemporaneità è rispetto a se stessa, smarrita seppur con una provenienza presentita, collocata appunto in uno “spazio accanto”. Un sapere della rovina, se è vero che, come diceva Benjamin, le allegorie “sono nel regno del pensiero quel che sono le rovine nel regno delle cose” (W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, tr. it. di F. Cuniberto, Einaudi, Milano, 1999, p. 152).