Tropico del Cancro
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11.01.2021

Una critica del presente

Stefano Righetti


La cultura italiana (e in generale europea) sembra dominata da tempo da una generale perdita di aspirazioni che si è ormai tramutata in una comune mancanza di ispirazione. La confusione economico-sociale seguita alla pandemia virale non ha fatto altro che evidenziare le contraddizioni che permeano da tempo le società occidentali, dove il conflitto fra vita e economia si è fatto quotidiano, e dove i sistemi politici hanno visto emergere il rischio di una crisi più complessiva. Tranne che in pochi Paesi, in Europa come negli Stati Uniti i populismi hanno interpretato la crisi finalizzandola a un progetto del tutto reazionario: indebolire le già deboli istituzioni democratiche.

In Italia ciò è reso ancora più drammatico da una generale mediocrità della classe politica, che da trent’anni a questa parte ha determinato una carenza ormai strutturale del sistema culturale, formativo, della ricerca a tutti i livelli. Il mediocre è divenuto modello di riferiferimento su vasta scala, invadendo l’informazione, i programmi televisivi e svuotando l’istruzione di ogni riferimento minimamente autorevole sul piano sociale. In alternativa al crimine, il Talent show ha preso il posto dello studio come via per il successo, una volta constatato che il sistema universitario è precluso ai più dalle raccomandazioni, dai concorsi preordinati, dall’etica a parole e dal merito sui generis. Se proprio vuole rimanere nella legalità, all’italiano medio è consentito l’espatrio o, in alternativa, la possibilità di aprire un bar, un’enoteca o di friggere patatine per i turisti stranieri venuti ad ammirare l’immondizia per le strade del Paese.

Quando diciamo crisi intendiamo riferirci però soprattutto a quella che da diversi anni appare come una perdita di modelli politici e ideologici alternativi. Una volta scambiata la scomoda funzione del pensiero critico con le comode ragioni del pensiero debole ogni lettura della realtà che intendesse mettere in discussione il modello di sviluppo imposto dal neo-liberismo è divenuta ininfluente. La conseguenza di questo spegnersi sempre più cupo ha consegnato la vita sociale alle dinamiche precarizzate del lavoro e a una rassegnata sopravvivenza individuale; ha travolto e liquidato ampi settori dello stato sociale e fatto crescere al loro posto inique forme di solidarietà privata che, incapaci di offrire reali coperture ai diritti costituzionali, hanno allo stesso tempo trasformato l’assistenza della ‘solidarietà’ in lavoro a sua volta precario e sottopagato.

Questo modello sociale si è accompagnato (e ha favorito il sorgere), a partire dagli anni 80 e 90, di una cultura della superficialità incapace di leggere criticamente le dinamiche sociali, ma sempre pronta a rifletterle nella forma consolatoria dell’intrattenimento e dello svago. La letteratura si è svuotata di scrittura per riempirsi del genere poliziesco. L’arte contemporanea si è fatta immagine decorativa della moda e dello show da aperitivo. E la filosofia si è sdoppiata nello sterile esercizio dell’accademia o nella ricerca di un ruolo nel mercato delle curiosità spettacolari.

Sulla crisi dei modelli e dei progetti politici che governano la nostra esistenza, e sulla necessità di idee e (osiamo il termine) di ideologie che potrebbero indicare una differente possibilità di sviluppo, di giustizia sociale, di aspirazioni individuali e collettive da trent’anni è calato il silenzio.

Tropico del Cancro è un luogo immaginario: non esiste geograficamente se non nella dimensione del non più e del non ancora. Per noi vorrebbe essere lo spazio di un racconto possibile a partire da uno sguardo coraggiosamente critico sulla cultura attuale. Convinti che se «la società parla nel suo linguaggio, e a noi vien detto di obbedire», come insegnava Marcuse, è ancora possibile (e ormai necessario) cercare di sostituire quell’obbedienza con nuove proposte.

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