Un tentativo di ritorno dal "paese dei morti"
Ubaldo Fadini

30.05.2021

Si prende atto da più parti, qualche volta con un pizzico – e anche qualcosa in più – di sorpresa e di sconcerto, di un ritorno da protagonista della storia sullo scenario delle “nostre” vite. Il futuro si rivela infatti ancora inevitabilmente incerto, di fatto inconoscibile o mai pienamente prevedibile, e allora non resta altro che cercare in un qualche modo, consapevoli del carattere provvisorio dei risultati dei nostri sforzi spesso pure patetici, di renderlo “passato” o perlomeno passabile rispetto ad una qualche decisione minimamente accorta nei confronti della vexata quaestio del “che fare?”.

Se ritorna la storia, non può che ancora delinearsi la sua ombra in movimento, cioè l'utopia, nel senso che la rappresentazione sotto veste storico-filosofica dell'essere umano, tradizionalmente riferita a un primato dell'immanenza assoluta del decorso appunto storico, non può fare a meno di rinviare a un polo per così dire antagonista, vale a dire la “natura” e il suo corrispettivo più propriamente disciplinato a livello concettuale: l'antropologia filosofica moderna.

Nel Novecento è stata infatti quest'ultima, nel complesso variegato delle sue figure e delle sue articolazioni, a raccogliere l'esigenza di svincolarsi in un qualche modo dalla presa di quel movimento storico che tutto sembra orientare/indirizzare, al di là degli errori compiuti e ancora da compiere. Ferruccio Masini, raccogliendo da par suo gli stimoli provenienti da quell'ambito di ricerca, filtrato opportunamente dagli studi che lo hanno individuato come uno dei retroterra più significativi dell'affermazione di una antropologia neoliberale particolarmente consapevole di sé, del suo cavalcare l'onda delle trasformazioni economico-sociali, soprattutto nei decenni di chiusura del secolo scorso, ha avuto il merito, in tempo “reale”, negli anni '80, di sottolineare come al monolitismo delle per certi versi differenti filosofie della storia si opponesse una sorta di “polimorfismo antropologico”, un richiamo alla “pluralità degli assoluti” riferibili alla plasticità della natura umana, al suo posizionarsi inquieto nei confronti del mondo, un posizionarsi “mosso” perché costitutivamente eccentrico.

Da qui lo scaturire di una possibilità effettivamente fertile, quella di una filosofia “pluralistica”, contraddistinta da un salutare atteggiamento “scettico-nichilista” rispetto alle instancabili proiezioni di carattere unilineare del movimento storico, con il suo “progresso” di fondo. Il disincanto che così si manifesta è in quest'ottica da raccogliere come premessa indispensabile per riaffermare un'immagine dell'essere umano come vero e proprio Möglichkeitmenschen (“uomo delle possibilità”: per riprendere Robert Musil).

Il contesto di vita di tale “strano soldato” è da comprendersi come un “laboratorio sperimentale” nel quale non si subisce in una qualche maniera la storia, bensì la si inventa, in un senso che non può che incrociare, come sottolinea ancora lo studioso fiorentino (di cui si veda in particolare la raccolta di testi Le stanze del labirinto, Ponte alle Grazie, 1990), “il piano dell'intenzionalità utopica”: è in tal modo che si presenta appunto l'utopia, da intendersi come “non-luogo”, come una vera e propria atopia che niente ha a che fare con chi pretende di avere a disposizione, con coscienza storica, un'idea rigorosa di ordine e di progresso razionalmente e pienamente determinato.

E' in questo ambito di riflessione che prende corpo la fantasia accesa – e virtualmente sempre pronta a manifestarsi – di una coscienza/speranza utopica in grado di far saltare i costrutti compiuti attraverso i quali si cerca di trattenere e a volte addirittura di vincolare a tutti i costi l'esistere “storico” con il suo carico “affettivo” di alternative possibili. A partire da ciò molto si potrebbe aggiungere, anche di segno diverso e pure contrapposto: ad esempio, sul localizzarsi variabile e parziale dell'utopico nella forma antropologica e storica insieme del cosiddetto “capitale umano” (per ritornare sul piano dell'affermazione fortunatamente contingente del primato del “morto” sul “vivo”, indicato però come dominante di specificazione del modo di produzione capitalistico), ma quello che mi interessa qui è segnalare un primo movimento di smarcamento, rispetto alla difesa stretta dell'utopico, rinvenibile in alcune osservazioni di Gilles Deleuze e Félix Guattari, così come ho cercato di indicare, anche con altre chiavi di lettura, nel mio Attraverso Deleuze. Percorsi, incontri e linee di fuga (Ombre corte, 2021).

Gli autori di Che cos'è la filosofia? si impegnano infatti a distinguere tra le “utopie autoritarie o di trascendenza”, strettamente collegate a intenti di restaurazione, e le “utopie libertarie, rivoluzionarie, immanenti”, espressioni di una dimensione di virtualità, di potenziali di trasformazione radicale, che fa il suo effetto tutt'altro che spettacolare in qualsiasi quadro d'epoca, trovando ospitalità all'interno proprio della filosofia, in grado di apprezzare nei suoi punti critici il movimento dell'infinito, la “deterritorializzazione assoluta”: l'utopia, in un senso non troppo distante da quello della concezione di Ernst Bloch, individua i punti rilevanti di contatto del movimento dell'infinito “con l'ambiente relativo presente e soprattutto con le forze che vi si trovano soffocate”.

Facendo i conti concretamente con il “capitalismo europeo”, si può anche dire che la filosofia riesce, attraverso l'utopia, a portare all'assoluto la deterritorializzazione in questo caso “relativa” del movimento del capitale e lo fa appunto immanentizzandolo, rivolgendolo contro se stesso, passandolo sul piano di immanenza: è la filosofia a “fare appello a un'altra terra, a un nuovo popolo”; in ciò consiste il valere/valore rivoluzionario dell'utopia, cioè nel suo rilancio concreto e creativo nel qui e ora, nella lotta contro tutti i registri di conformazione dell'ambiente presente alla logica capitalistica che si manifesta come “qualcosa di trascendente”.

In quanto singolare manifestazione del virtuale, mai pienamente risolvibile nelle sue attuazioni, l'utopia presenta in breve l'infinito ed è ciò che provoca “entusiasmo” (sempre e comunque: al di là degli stessi fallimenti dei tentativi rivoluzionari) in modo tale da mostrarci ancora una volta che c'è dell'”indefinito” nel nostro vivere, che si dà la possibilità concreta di una esperienza da vivere nel frat-tempo, nel tra-dire, in modi che non finiscono mai di finire e che così rendono impossibile il definire una volta per tutte: si può certo tornare dal paese dei morti – e non come “morti viventi”, come puro “capitale umano”: come molti ancora pretendono e impongono – ed è questo un altro modo per ribadire l'importanza, nonostante tutto, di aver “fiducia nel mondo”, nella capacità di “suscitare eventi”, anche quelli più piccoli, che sfuggano al “controllo”, a ciò che vuole lo “spossessamento” pieno, l'assoggettamento più radicale e il nostro smarrimento irrimediabile nella perdita di mondo, nell'impossibilità quindi di creare sempre nuove distanze, cioè rapporti, relazioni, incontri (e anche scontri).