Un lungo viaggio nella notte
Marco Rovelli

19.02.2022

Se ho visto un capolavoro negli ultimi tempi, è questo. Un lungo viaggio nella notte, del cinese Bi Gan, che aveva 29 anni quando il film è uscito nelle sale nel 2018. Io, però, non l'ho visto al cinema, ma su Prime Video, e già qui potrebbe partire una deriva (che non faremo) – visto che il cinema, in questo film, è la materia che impasta il racconto, esibita nella sua natura di sogno e di spazio.

Un uomo cerca una donna del suo passato. Il racconto è tutto qui, intramato a suggestioni noir, a un'indagine a ritroso. Ma la trama va squarciata, per vedere oltre – come in Inland empire, dove la sigaretta lacera la trama sottile di una seta, che è la trama stessa del film, e invita a vedere quell'oltre che è già qui. Del resto viene naturale convocare David Lynch tra i numi di Bi Gan: perché questo film è davvero una sorta di Inland empire cinese, ma richiama anche Mulholland drive, là dove realtà e sogno trapassano l'una nell'altro, specularmente e senza origine, e così due donne sono anche una sola. Ma non c'è solo Lynch tra i numi, c'è anche Tarkovskij, il cui Stalker fu, a detta di Bi Gan stesso, ciò che lo indusse a fare cinema ai tempi del college. E, in questo film, tutto è liquido, allagato, acquitrinoso. Dopodiché, intendiamoci, questi sono solo alcuni rimandi: il film non sarebbe un capolavoro se Bi Gan non fosse stato capace di creare un suo proprio linguaggio autonomo, con una straordinaria potenza visiva, estetica, sinestetica.

L'acqua, dunque: è ciò che sfrangia i contorni delle cose, che le fa trapassare, che dilata il tempo, che fa smarrire il senso della permanenza nel tempo. Dove tutto è acqua, la percezione viene strappata alla successione di un tempo cronologico, e resta una durata dove il Tempo è Ora, dove tutto è compresente, e il passato è creato mentre viene rivissuto. Il tempo si trasforma in spazio.

“I miei ricordi sono fatti di pietra”, dice all'inizio del film Luo Hongwu, il protagonista maschile interpretato da Huang Jue. E' per giungere a essere idrogeno come accade nei sogni, che si mette in movimento, che si mette alla ricerca di quella donna – di quella traccia: Wang Qiwen, interpretata da Tang Wei. Luo entra, progressivamente, nel sogno, ovvero in quell'evento che attiva la memoria (“la sogno sempre quando sto per dimenticarla”).

La “realtà”, quella fatta di una permanenza, di una sostanza, di un'identità, comincia a collassare: la radio annuncia frane, smottamenti, ed è come una voice over che annuncia il collasso del tempo. Tutto si mette fuori posto, come il trucco della donna amata e quello della madre, un trucco sbavato, per il tremolio del treno – quel treno in cui Luo vede un fantasma. Quando la realtà si scardina (il time out of joint di Amleto), si vedono i fantasmi. E cosa sono i fantasmi, se non pure immagini, un'immagine che esiste in sé, che non è immagine di niente e di nessuno, la realtà in quanto immagine pura? Un frammento di quella materia che, come dice Bergson, non è che “insieme di immagini” che esistono in se stesse.

Le immagini in quanto tali ricorrono di continuo, nel film, come l'acqua: anch'esse, come l'acqua, producono uno scarto. Che siano le immagini di uno specchio, o le “somiglianze” con le dive del cinema, non sono mai immagini di, ma sempre apparizioni non coincidenti, che fanno segno a una piega nell'illusoria solidità della “realtà”. E quando la realtà si mostra intramata da quel niente che è, emerge l'ossessione di Luo, quella per “chi sta nello spazio, con niente su cui appoggiarsi per riposarsi un po'”.

E' un mondo di immagini che appaiono e svaniscono davanti agli occhi, dove “non si può distinguere il vero dal falso”. Questo mondo di immagini, dice Luo, è la memoria. E' quel mondo dove fuori dagli hotel ci sono “lampioni che assomigliano a dei soli”, cosicché i clienti possano dormire senza avere incubi.

Per inoltrarsi in questo mondo di immagini che è la memoria, dove il tempo si fa presente e si presentifica in spazio, bisogna raccontare storie, come fa Wan Qiwen. Ma storie appunto dove la trama è un pretesto, non il testo, dove bisogna lasciarsi ingannare senza poter mai capire cosa sia il vero e il falso (come il karaoke, anch'esso elemento ricorrente nel film, dove si canta una canzone che è e non è la stessa), per arrivare a dimorare nella pura impressione dell'immagine che è. Nell'atto puro che è la vita.

Per compiere “l'incantesimo che fa roteare la casa”, occorre uscire dal terrore del ricordo (“vivere nel ricordo mi terrorizza”), e fare memoria – che, diversamente dal ricordo, fossile inerte, è qualcosa che vive nel e del suo esercizio, del suo presente puro. E' la memoria il segreto del tempo: e non a caso l'orologio è la chiave di tutta la vicenda, dall'inizio alla fine del film. Trapassare l'orologio, la sua trama cronologica, per percepire l'eternità nell'effimera transitorietà delle nostre vite: nel bacio di due amanti, che è come sognare. Ed è l'alba.