21.03.2021
Un compito: sentire diversamente
Ubaldo Fadini

Il risentimento dilaga ovunque e fornisce le sue risorse inesauribili a coloro che comunque prospettano una qualche tenuta “sociale” del modo di vivere odierno. Si sa che i filosofi, soprattutto a partire da Nietzsche (e poi, in modo un po' diverso, da Max Scheler) si sono impegnati a coglierlo nella sua specificità come “sentimento degli schiavi”, rancore trattenuto e però sibilante e così via. Ma nel Novecento è emersa un'altra considerazione, che lo comprende come possibilità di un ri-sentire più consapevole delle sue “ragioni”, capace cioè di afferrare il tempo per rovesciarlo, di indicarne le contraddizioni, senza così attribuire al tempo stesso il compito rassicurante del rimarginare le ferite, le lacerazioni dell'esistere individuale e collettivo.

Penso soprattutto a Jean Améry, al suo Intellettuale a Auschwitz, all'idea che qualcosa sia storicamente venuto meno, la “fiducia nel mondo”, a causa di una vicenda irrimediabile, quella della tortura intesa come mezzo e fine del nazismo. Si sa che Améry non ritiene che tale fiducia possa essere riconquistata e questo imbarazza, mi imbarazza, nel momento in cui sono convinto che ancora oggi il problema da affrontare, ovviamente in forme sempre cangianti, mutevoli, sia proprio quello del come vivere nel mondo, per riprendere tra gli altri Tim Ingold, di come ricostituire pratiche/relazioni in grado di assicurare potenziali di soddisfazione ulteriore alla nostra “sociabilità”.

Ma l'imbarazzo è sempre un velo, ha quella funzione di rendere in parte visibile ciò che altrimenti rimane nascosto, e per coglierne il gioco delle ombre, meglio: il suo ondeggiare rivelatorio, riprendo proprio ciò che l'autore di Rivolta e rassegnazione ricorda a proposito del suo ritorno al Lager dopo una giornata di lavoro: notando su un edificio in costruzione una bandiera esposta, scatta automaticamente l'associazione che porta a mormorare i versi di Hölderlin, “Al freddo muti se ne stanno i muri, nel vento stridono le banderuole”; associazione meccanica, certamente, altre volte scattata per il suo permettere l'affiorare di un “riferimento emozionale e spirituale”.

Ma quest'ultimo non emerge più: “Non accadde nulla. La poesia non trascendeva la realtà”. Tra lo “spirito” e la “morte” i confini si sono affievoliti fino al punto di far sparire, proprio per l'affermazione piena nel Lager del sentimento di “estraneità”, la premessa essenziale per la manifestazione di qualcosa di “spirituale”, vale a dire la presenza della relazione viva, della possibilità di realizzarla. Una volta giunti così ai confini atroci dello “spirito”, cosa ne viene trattenuta – di tale esperienza – da parte del “sopravvissuto”?

Si sa che Améry lo vede – si sente – come colui al quale è stata inferta una ferita che il tempo non potrà mai rimarginare; anzi, tale ferita è destinata a peggiorare con il trascorrere del tempo stesso, con quel suo correre sempre più impetuoso che ha anche come obbiettivo quello di far dimenticare, di rimuovere ciò che irrimediabilmente – lo ripeto – è accaduto. Mostrare dunque la ferita vale come un compito etico e politico, contro l'eterno ritorno dell'infamia e dei suoi sempre più numerosi servi, anche degli ignavi e non per questo “innocenti”.

Da qui la polemica ricorrente e particolarmente aspra nei confronti di tutte quelle posizioni di credenza, di fede, che non (si) smuovono mai, che identificano il loro punto di partenza con quello finale, cancellando, per ciò che concerne lo stesso Améry, il valore del divenire, del diventare ebreo. Mi viene qui in mente Gilles Deleuze, quando osserva che “la potenza del falso è il tempo in persona” e non nel senso che i contenuti temporali siano ovviamente variabili ma perché “la forma del tempo come divenire” ha l'effetto di mettere radicalmente in discussione qualsiasi “modello formale di verità”.

E attraverso l'autore di Intellettuale a Auschwitz si può richiamare quel fenomeno del contrarsi del futuro, della dimensione temporale specificamente umana, vera e propria dominante della nostra epoca, che consente di riconoscere, come ha ben sottolineato Daniele Orlandi in Scrivere il risentimento, che “il potenziale di realizzazione come di fallimenti diminuisce” e paradossalmente “aumenta solo il passato” con quel suo presentarsi nella forma trionfante del sempre-uguale.

Appunto: l'esule dal Terzo Reich non potrà mai pensare, pronunciare, trasmettere quelle parole che fanno in ogni caso riferimento a delle potenzialità nel passato riuscite o fallite. Il suo passato è fatto soltanto di rovine, nessun rifugio è possibile tra di esse e la loro visione può – e deve – risultare intollerabile agli occhi degli assassini di un tempo, dei loro complici, di ieri e di oggi.

Con un surplus di auto-consapevolezza, dalla parte del sopravvissuto, che vede come il reale abbia sommerso ormai il possibile e che proprio per questo si schiera senza riserve a favore di una sorta di umanesimo ultra-radicale: un sovrappiù determinato dall'esperienza storica dell'annientamento e dal suo riproporsi senza soste anche nel presente, in diverse modalità. Come delinearlo tale sovrappiù? Forse facendo riferimento alle parole di Primo Levi allorquando ricordava che in fondo a sopravvivere erano i peggiori, quelli “adatti”, mentre gli altri, i “migliori”, morivano tutti.

E allora il sopravvissuto ci invita a vedere come ce la caviamo, prima di tutto con noi stessi e con il mondo e poi anche con la loro stessa fine. Ce la caviamo forse, in parte e provvisoriamente, facendo nostra l'affermazione di Beckett: ho fallito? Senz'altro. Cercherò di fallire meglio. E a questo “fallire meglio” che può essere assegnata, a mio modo di vedere e tra l'altro, anche una valenza etica (pratica, di relazione) e, se si vuole, “politica”, in grado di muovere in direzione – chissà? – di qualcosa di non completamente condizionato.