27.02.2021
Un altro freno. Sul motivo dell'istituzione
Ubaldo Fadini

E' arrivato da poco tempo in libreria il nuovo libro di Roberto Esposito, Istituzione (il Mulino, Bologna, 2021), nel quale si può trovare, tra l'altro, una sintesi efficace, ovviamente provvisoria, dei molti motivi di interesse di un lungo e assai articolato percorso di ricerca. Tra tali motivi, scelgo la rinnovata attenzione appunto al concetto centrale di istituzione e a ciò che oggi può rappresentare, all'interno di una condizione di esistenza che risulta come stravolta dalla pandemia che ha colpito il mondo intero. Esposito ha il merito di confrontarsi con delle tradizioni di ricerca di segno giuridico, sociologico, filosofico che forniscono elementi importanti per pensare diversamente proprio l'istituzione, anche svincolandola, in proiezione, dal legame con la dimensione della sovranità statuale.

Restando su un piano più propriamente filosofico, le correnti concettuali di riferimento sono l'antropologia filosofica di segno soprattutto “negativo” (si pensi ad Arnold Gehlen), certi sviluppi della fenomenologia anche in senso storico e politico (un certo Merleau-Ponty, ripreso poi da Claude Lefort) e alcune figure teoriche caratteristiche del cosiddetto post-strutturalismo. Senza seguire in dettaglio il confronto di Esposito, sempre stimolante, con tali linee di indagine, un motivo di esso comunque colpisce ed è quello che dà ancora più sostanza alla critica di un modo di pensare il rapporto tra “istituzioni e movimenti”, risalente agli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, che considera l'istituzione come un fattore essenzialmente conservativo, in fondo autoreferenziale, che non riesce a sostenere un ragionamento rivolto invece a riconoscere l'eventuale fertilità di una integrazione tra la trasformazione sociale e il complesso istituzionale.

E' a partire da ciò che si prende atto, sulla scia di altri studiosi e anche con un accento autocritico nei confronti di precedenti ricognizioni in tal senso, che rispetto a tale stato d'animo collettivo, storicamente collocato, spicca per la sua eccentricità la posizione di Gilles Deleuze, soprattutto quella della fase per così dire “giovanile”, segnata dallo studio di David Hume e del nesso di “istinti e istituzioni”. E' in tale fase che si delinea un'idea di istituzione, con le opportune pezze di appoggio, caratterizzata dal tentativo di smarcamento dalla presa della “legge”, anche in virtù di un rinnovato interesse al protagonismo del “sociale”.

Insomma, si presenta qui l'istituzione come un mezzo di soddisfazione, un medium particolarmente promettente di quelle tendenze e di quei desideri che si concretizzano al di fuori dell'ambito proprio di codificazione dei poteri dominanti dati. Si è quindi non lontani da una raffigurazione dell'istituzione che la individua nella sua portata mediatrice proprio rispetto a qualcosa a cui risulta intimamente collegata ma che resta in ogni caso, sia pure parzialmente, “altro”. Quest'ultimo va “trattato”, lo si riconosce tale compito, anche sotto veste di effettuazione, di messa a valore di ciò che in altre tradizioni di ricerca appare come il “negativo”.

Senz'altro sarebbe da approfondire il ragionamento sul ruolo essenziale svolto dal “non-identico”, in forme differenti, nel passaggio di blocchi tematici dalla Germania alla Francia, in parte appresi anche da Deleuze, ma vorrei soffermarmi su un punto dell'analisi di Esposito, in conclusione del suo testo, nel quale si prende atto di un presunto – e certamente in parte accertabile – vitalismo di matrice bergsoniana del filosofo francese, sostanzialmente sempre presente, imputando ad esso l'impossibilità di cogliere la dialettica del vivente a vantaggio di una “immanenza assoluta”.

In breve, riflettendo proprio sul vitalismo novecentesco, Esposito scrive, in relazione a un modo di pensare che con/fonde irrimediabilmente il vitale con il mortale: “Ciò è l'esito di un'affermazione della vita che, non riconoscendo il negativo che la abita, finisce per farsene risucchiare. Una vita priva di pieghe, scansioni, differenze che ne scandiscono il ritmo, rischia di scivolare in un gorgo senza argini. Del resto il pensatore che ha spinto il processo vitale bergsoniano al punto di massima ebollizione, pervenendo a una sorta di immanenza assoluta – mi riferisco a Deleuze – , è costretto a riconoscere nel flusso del desiderio linee di morte e distruzione che lo indirizzano contro la stessa vita da cui scaturisce. Diversamente da quanto si crede, c'è un rapporto oscuro tra vitalismo estremo e pensiero della morte” (pp.153-154).

A questa immagine di una vita assoluta, immanente a se stessa, Esposito contrappone la sua idea di pensiero (e di paradigma) istituente, con al centro il carattere simbolico di una esistenza umana costitutivamente storica: da ciò emerge una vita che è sempre formata e in via di trasformazione, vale a dire intimamente connessa a tessuti istituzionali, ovviamente ri/disegnabili e ri/formulabili, in virtù della loro funzione di imprescindibile accompagnamento.

In sintesi, lo sforzo teorico del filosofo italiano è appunto quello di centrare nuovamente l'attenzione sull'unità fondamentale, da apprendere nelle sue variazioni temporali, di “forza e forma, vita e istituzioni, natura e storia”. Sicuramente l'essere umano è un essere “storico”, per dirla con Theodor W. Adorno, un essere “bio-sociale”, per riprendere anche Edgar Morin, ma per tornare a Deleuze, attento alle pieghe, alle differenze, alle incrinature, forse bisognerebbe, tra l'altro, rileggere Mille piani, laddove Deleuze e Guattari si chiedono come sia possibile attraversare l'“immensa disfatta” nella quale siamo individuati, come si possa insomma procedere in un mondo di flussi mutanti senza che la spinta alla deterritorializzazione assoluta ci travolga e spazzi via qualsiasi entità istituita.

Una risposta è quella della relativizzazione “politica” di tale deterritorializzazione, in vista di altri transiti, di altre storie in grado di assicurare della risonanza, di restituirla come espressione di relazione. Frenare un po' per ripartire e sintonizzarci sia pure provvisoriamente con i tempi e i ritmi della grande deterritorializzata, della non-nostra Terra.