Tornare al cinema
Leonardo Gandini

18.05.2021

La chiusura prolungata, imposta dalla pandemia, di tutto il settore delle arti e dello spettacolo ha prevedibilmente generato un coro di voci di protesta. Al centro delle quali si trovava non solo l’idea delle difficoltà economiche cui sarebbe inevitabilmente andato incontro il settore, ma anche la fondata convinzione che la cultura gioca un ruolo fondamentale nell’economia mentale e sociale di una collettività. Nel caso specifico del cinema poi, alle proteste contro la chiusura, caduta inoltre proprio nel periodo di maggior profitto per il comparto, si sono aggiunte previsioni funeste sulla possibilità che quella delle sale fosse una scomparsa non provvisoria ma definitiva, complici le tante forme disponibili di fruizione domestica di film e serie televisive. Essendo alimentate dalla permanenza forzata nel salotto e sul divano di casa, esse avrebbero dunque, secondo questa linea di pensiero, definitivamente alienato gli spettatori dalla sala, o meglio dall’abitudine di fare della sala il luogo naturale di incontro con un film.

In realtà, queste previsioni – ora, a sale cinematografiche riaperte e affollate, lo possiamo dire – si sono rivelate eccessivamente  pessimiste. Non è peraltro la prima volta che del cinema in sala si celebra anzitempo il necrologio. Già negli anni ottanta la diffusione dell’home video, nella forma delle videocassette prima e dei dvd poi, e l’esplosione dell’emittenza televisiva privata, contraddistinta dalla massiccia presenza di film nei palinsesti diurni e notturni, avevano generato pensieri apocalittici sulla decadenza del cinema e sulla progressiva estinzione delle sale. In linea di principio, le riflessioni di ieri e di oggi hanno diversi tratti in comune, a partire dalla convinzione che la diffusione di forme private e domestiche di consumo di cinema impigrisca gli spettatori al punto da tenerli distanti dalle sale.

E’ un’idea che è stata più volte, nel corso degli ultimi decenni, clamorosamente smentita. Vi si ravvisano echi di una tecnofobia, nella nostra epoca, mai del tutto sopita: essendo la tecnologia votata a provvedere strumenti sempre più sofisticati di visione domestica, ecco che puntualmente se ne sono individuate le conseguenze più deleterie sul piano antropologico, prefigurando una società atomizzata e dispersa, formata da individui in dialogo privilegiato, quando non esclusivo, col proprio computer. La riapertura delle sale, e la risposta positiva del pubblico, ha smentito le ipotesi più fosche. Ma soprattutto ha dimostrato, per l’ennesima volta, come quella della visione cinematografica in sala sia un’esperienza sociale prima che intellettuale.

Per molto tempo l’idea che il pubblico, andando al cinema, goda non della visione di un film, ma della visione di un film e di tutto quello che le sta intorno, che la precede e le succede (in ordine sparso: uscire, raggiungere la sala a piedi o meno, prendere un aperitivo, cenare, fare la spesa, fare shopping, dialogare con le persone che lo vedranno o lo hanno visto con noi, del film piuttosto che di altri argomenti, scegliere e comprare una bibita o del cibo da consumare durante la proiezione, tornare a casa), è stata interdetta dalla necessità, mai veramente del tutto estinta, di legittimare il cinema in chiave estetica.

La costruzione del film come oggetto artistico è figlia di un’epoca – durata almeno fino alla metà del secolo scorso - nella quale il cinema andava accreditato come forma estetica, per scongiurare una condizione di subalternità alle altre arti. Da qui l’idea che la visione del film, ovvero tutto quello che avviene dal momento in cui in sala si spengono le luci a quello in cui riaccendono, sia il centro focale dell’esperienza cinematografica, e che quest’ultima sia un’esperienza innanzitutto intellettuale. Una linea di pensiero che naturalmente, attribuendo una centralità assoluta alla relazione tra film e spettatore, e alle potenzialità estetiche che le sono intrinseche, guarda legittimamente con sospetto alla proliferazione di forme domestiche di consumo, cercando di screditarle in quanto lesive della “comunione mistica” che si verrebbe a creare, in sala, tra film e pubblico.

In realtà, ad eccezione di una minoranza di cultori e appassionati - cui appartengono, da qui l’errore di prospettiva, coloro che sono soliti riflettere e scrivere di questi argomenti – le persone vanno al cinema, non semplicemente a vedere un film. Ovvero, antepongono i piccoli e grandi piaceri legati all’esperienza complessiva, di cui la visione del film fa evidentemente parte, alla loro relazione estetica con quanto passa sullo schermo. Al cinema - andando al cinema, grazie al fatto di essere andati al cinema – nascono o finiscono amori, si cementano o allentano amicizie, si sanciscono legami familiari (ad esempio durante le festività natalizie), si celebra con cadenze regolari l’esistenza di compagnie di coetanei, che possono essere formate da adolescenti ma anche, con maggiore frequenza di quanto si potrebbe pensare, da pensionati.

In ciascuno di questi casi, la scelta di andare del cinema definisce l’appartenenza ad una comunità sociale, che può essere molto esigua (fidanzati, coniugi, genitore e figlio) o più estesa (il gruppo di coetanei). Queste pratiche devono la loro importanza a qualcosa che ha molto a che vedere con l’esistenza delle sale, ed è per questo che se ne è opportunamente criticata la chiusura, e poco con la qualità del film, al punto che le battaglie ideologiche contro le forme di consumo domestico paiono eccessive e fuori luogo.

E’ proprio perché la pratica dell’andare al cinema non ruota esclusivamente intorno ad un film ben definito, al nostro desiderio di vederlo e di uscire soddisfatti dalla sua visione, che le forme di consumo domestico non rimpiazzano fino in fondo l’esperienza della sala. Che ha inizio molto prima (e fine molto dopo) del momento in cui, nell’ oscurità, il singolo spettatore è a tu per tu col film.