Thunder in our hearts. Stranger Things come metafora della depressione
Paolo Missiroli

18.06.2022

La popolare serie televisiva Stranger Things (da ora ST), come tutti sanno o hanno intuito, è una metafora della depressione e della lotta che si può ingaggiare nei suoi confronti. Meno evidente, forse, è la modalità da essa proposta di combattimento a questo genere di male, così pervasivo (insieme all’ansia) delle nostre società e con sempre maggior forza. Indubbiamente è ancora presente nel nostro mondo storico una certa atmosfera che tende a colpevolizzare il malato mentale come responsabile del proprio dolore.

Utilizzando l’espressione “malato mentale” non intendiamo qui negare l’importanza dell’anti-psichiatria e dei suoi militanti, ma semplicemente identificare i soggetti che soffrono in ragione di una condizione, come dicevamo oggettivamente dilagante, di disturbo mentale. Questa colpevolizzazione, scrivevamo, colpisce ancora oggi il malato mentale, in una duplice misura: in primo luogo, si rimprovera al malato di essere un peso per il corpo sociale (la cerchia che lo circonda e quella, più larga, dei rapporti sociali in generale) e, in secondo luogo, lo si accusa di essere colpevole del proprio dolore.

Eredità, tanto a lungo indagata da Michel Foucault, del cristianesimo nella sua forma agostiniana: il rapporto di sé con sé, per noi, passa da un dialogo incessante che abbiamo con noi stessi e, mediatamente, con Dio. Foucault ci ha insegnato che la forma della soggettività “cristiana” è la confessione, l’infinita ermeneutica di sé stessi: la colpa risiede nelle pieghe della carne del singolo, rimane in agguato e infine, come Vecna (il demone-stregone di ST), colpisce e spezza. Solo la Grazia, che non dipende da noi ma è, letteralmente, un dono del Padre nostro nei cieli, può salvarci dalla colpa. Libera nos a malo.

Sempre Foucault ha mostrato come questi processi, secolarizzati e purificati, siano ancora presenti nel modo in cui noi concepiamo il nostro rapporto con noi stessi. Il neoliberismo ha portato questi meccanismi a un grado superiore: il mito dell’individuo non solo fa derivare la malattia mentale da uno scompenso soggetto-mondo tutto interno al soggetto stesso, ma, immanentizzando la Grazia, ce la consegna come via di fuga sempre a portata di mano, che semplicemente l’individuo sceglierebbe di non vedere.

La malattia mentale, dunque, sarebbe una forma di cecità e di debolezza, che un lavoro di compiuta accettazione di un’armonicità di fondo tra l’individuo e il mondo perfetto del libero mercato risolverebbe rapidamente. Ciò che vuoi, puoi. Ideologia ancora più perniciosa del mito religioso della Grazia, che quantomeno non la faceva derivare dalla nostra, singolare, scelta e non ci illudeva sulla perfezione del mondo terreno.

Con tutta evidenza, nessuno che abbia mai sperimentato un problema di depressione o di ansia può in buona fede credere a questa storia. Questo per una ragione molto semplice: non esistono, nella realtà, gli individui che Mrs. Tatcher pensava invece fossero la colonna portante del mondo. Lo scivolamento nella depressione, come emerge benissimo da ST, è sempre legato al senso di colpa, altra eredità (fatta propria fino in fondo dal neoliberalismo) del cristianesimo agostiniano. Vecna colpisce non i colpevoli; non è un Dio-giudice violento e giusto; Vecna attacca chi pensa continuamente alla propria colpa.

La depressione, lungi dal derivare dal mancato rapporto con la propria interiorità, da un dialogo continuo del sé con sé sulla propria esperienza, è al contrario la figlia sana di questo ripiegamento su sé stessi, dal darsi la colpa di quanto accade perché lo stato di cose presente lo genera. Alla giovane Max, ormai intrappolata nelle sue grinfie mortifere, Vecna sussurra “tu sai che questo è il tuo posto. C’è un motivo per cui fuggivi dai tuoi amici”. Nessun meccanismo impedisce l’abbandono della malattia mentale e del dolore, fino in fondo fisico, che essa arreca, più di quello perverso del senso di colpa.

Max non si libera da Vecna nemmeno quando gli dice “tu non sei davvero qui”. Chiunque sia mai stato depresso o abbia mai sofferto d’ansia sa che non basta sapere che è “solo nella mia testa” per sfuggire a quella disastrosa condizione: Vecna risponde, come “fa” la depressione, a Max che gli ricorda la sua assenza “reale”: “Oh, ma io sono qui Max. Ci sono.” A Max non basta, neanche, chiedere aiuto ai suoi amici: il suo urlo di aiuto, consapevole del pericolo, si perde in quel cielo nero. Max non può fuggire da Vecna nemmeno nel momento in cui scopre che, in realtà, dentro di sé, nel suo cuore, essa non è colpevole, ma quando ricorda i suoi rapporti con gli altri e con il mondo; altri, mondo, che la accettavano così com’era, senza sottoporla al giudizio che essa stessa imponeva a sé stessa.

Gli altri ragazzi che invece Vecna è riuscito a spezzare hanno in qualche modo abbracciato il proprio senso di colpa. Max non lo fa, ma non perché neghi la colpa; bensì perché ricorda gli altri, ricorda, in qualche modo, di non essere un individuo; che la sua colpa non conta nulla, mentre ciò che essa è sono solo le sue relazioni. Metafora della liberazione: non c’è emancipazione, dalla malattia mentale o dai modi di produzione, senza movimenti collettivi. Dobbiamo qui adottare il senso più profondo della parola “movimento”, cioè accettare che i soggetti siano solo ipostasi del movimento collettivo in cui sono collocati, cioè che essi stessi in qualche modo siano un moto e non un’essenza, un’interiorità. Ricordare, come dice Lucas a Max, che gli altri sono qui, ci sono veramente.

È la presenza, solo la presenza e non un dialogo con un vuoto o una trascendenza lontanissima che spezza il circolo devastante della malattia mentale. In questi termini bisogna intendere l’espediente della canzone che proietta, attraverso i suoi amici, Max fuori dalla stretta di Vecna: il ricordo di qualcosa, di quel movimento pre-individuale in cui era immersa e che era, in realtà, tutto il suo essere, rompe la sua permanenza in quello spazio desolato che è metafora proprio di questa infinita concentrazione su sé stessa. Come tutto ST è metafora di una vita sociale, la nostra, che a tratti pare confondersi con questa vera e propria endemia di ansia e depressione.

Forse, via di uscita da essa non è la trasformazione del modo in cui, collettivamente, ci relazioniamo al modo di produzione e ai rapporti sociali esistenti, ma la trasformazione reale di questi ultimi; certo, questa non avviene attraverso un atto di creazione, ma è radicata in ciò che, nel mondo, vogliamo allargare, riprodurre, rendere sistema. Cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.

D’altra parte, anche a Max la propria via di fuga appare come una piccola luce in un mare nero; luce che le ricorda una realtà più profonda, infinitamente diversa da quella in cui è sprofondata perché si dava la colpa del proprio male. Forse, nel mondo, vi sono più luci di quelle che, infinitamente concentrati nel darci la colpa delle situazioni di ansia e depressione che tutte e tutti condividiamo, vogliamo vedere. Forse il nostro cielo non è nemmeno così nero come quello del regno di Vecna. Forse, gli amici che lavorano a una soluzione per estrarci dal metaverso (che ci ricorda quello di Zuckerberg) non sono così pochi né del tutto disorganizzati. There is thunder in our hearts.