Teoria critica dell'antropocene
Paolo Missiroli

30.07.2022

Il testo che qui pubblichiamo è un estratto dal volume Teoria critica dell'antropocene di Paolo Missiroli edito da Mimesis



Che l’Antropocene sia la condizione insuperabile degli esseri umani e non umani, in qualsiasi luogo si trovino oggi, è tanto ovvio quanto misconosciuto dal dibattito, soprattutto da quello interno al mondo critico-radicale. È estremamente comune trovare appelli all’“uscita dall’Antropocene”, proposte su come “fermare” l’Antropocene e in generale richieste di abbandono della nostra epoca geologica. Si tratta di affermazioni che possono essere sensate sul piano immediatamente politico: esse sottendono un messaggio che manifesta la volontà di abbandonare una serie di rapporti sociali, politici, di genere e di sfruttamento che hanno indubbiamente generato la crisi ecologica in cui viviamo.

Tuttavia, da un punto di vista prettamente geologico ed ecologico, uscire dall’Antropocene è impossibile, per lo stesso motivo per cui, per noi, Natura e Terra non sono distinguibili. Al fine di comprendere questo conviene riprendere il ragionamento sulla multi-temporalità e sulla convergenza delle storie messo in atto da Chakrabarty. A suo parere l’elemento caratteristico dell’Antropocene sta proprio nel fatto che in esso una molteplicità di scale temporali non riducibili tra loro collassino continuamente l’una nell’altra senza mai fondersi del tutto.

Se si fa interagire tale ragionamento con l’idea della Terra come suolo e al contempo alterità inappropriabile, si capisce perché, per un essere vivente che muove i suoi passi su questo pianeta all’altezza del XXI secolo, l’Antropocene non sia superabile: esso infatti è il suolo ineliminabile di ogni nostra possibile vita e al contempo è altro da noi. Le scale temporali della vita umana hanno una durata e una ciclicità ridottissime rispetto a quelle della Terra in virtù del nostro essere costitutivamente situati in essa con un corpo biologico limitato. Nell’Antropocene, queste temporalità umane cadono nel tempo profondo (passato e futuro), non solo e non tanto nel passato profondo. Esse, cioè, devono confrontarsi con una temporalità che le eccede e con quel sistema di feedback che rende la reazione del Sistema Terra ad ogni interferenza estremamente lenta e durevole.

Questo significa che le trasformazioni apportate al sistema Terra dalla relazione tra quest’ultimo e l’attività, determinata storicamente, di alcuni esseri umani, non possono essere semplicemente rimosse: come la straordinaria esplosione dell’emissione di CO2 a fronte del consumo di combustibili fossili lascerà sul clima effetti irreversibili (poter tornare indietro rispetto a questi effetti è, appunto, il sogno prometeico della geoingegneria)1, così l’acidificazione degli oceani impiegherà migliaia di anni per essere compensata dall’emissione di CaCO32. Allo stesso modo la Sesta Estinzione di Massa non è qualcosa che si prevede avverrà in un futuro lontano, ma è un processo già in corso: migliaia di specie sono già perse per sempre e la diversità di un numero rilevante di ecosistemi è ormai compromessa.

Archer ha dedicato un intero testo a tutte le trasformazioni oramai intervenute e non più reversibili. In esso ha coniato il concetto di deep future3, che gli consente di guardare agli studi del Sistema Terra come in grado di mostrare che i tempi di azione e reazione della Terra non corrispondono, nella loro durata, a quelli degli esseri umani. Tutto questo futuro profondo, la cui lunghezza non è nemmeno prevedibile ma supererà senz’altro le molte centinaia di anni, sarà condizionato da interazioni in parte insondabili.

Il tema dell’irreversibilità delle trasformazioni in atto è centrale, perché è attraverso questa consapevolezza che si può parlare dell’Antropocene non come di un ostacolo da superare, ma come una condizione. In realtà, pensare che l’Antropocene (così come il riscaldamento climatico –ormai inevitabile, in una certa misura) sia reversibile significa schiacciare le scale temporali l’una sull’altra e ritenere che la crisi ecologica consista esclusivamente in una serie di scelte politiche umane: la crisi ecologica si arresterebbe, per chi assume questa posizione, nel momento in cui alcuni umani decidessero di dismettere il modo di produzione capitalistico e ne instaurassero uno più rispettoso degli ecosistemi terrestri.

Si tratta di una posizione antropocentrica, nella misura in cui assegna tutta l’agency al solo essere umano: non riconosce che quest’ultima si dà sempre all’incrocio tra passività (cioè lo stare degli umani in un orizzonte a sua volta vivo e non dominabile interamente) e attività (appunto, il loro “fare”). In realtà, l’attività umana non è, da sola, all’origine dell’Antropocene, ma co-agisce con un Sistema Terra attivo, che possiede una sua temporalità autonoma con la quale le “nostre” scale temporali (non pensabili senza quelle geologiche e biologiche) si sono infine scontrate e con cui, in realtà, si scontrano fin da quando il primo umano è apparso sulla Terra. Questo impatto, tuttavia, non risolve la distanza e l’alterità a cui abbiamo già fatto riferimento e ci obbliga così a riconoscere che, per ogni vivente, oggi, la Terra è l’Antropocene.

Quest’affermazione, apparentemente provocatoria, significa semplicemente che, sebbene dal punto di vista del tempo geologico-terrestre l’Antropocene non sia che un momento tra molti altri privo di una particolare specificità e destinato a finire così come è iniziato, per un essere vivente che oggi vive sul pianeta Terra non c’è differenza tra quest’ultima e il suo stato odierno, con tutto il suo portato di distruzione eco-sistemica, di innalzamento delle temperature, di aumento del numero degli eventi climatici estremi, ecc. La condizione di ogni vivente, umano e non umano, oggi, si risolve nell’Antropocene, giacché la Terra ha una potenza e una temporalità che noi non possiamo controllare proprio in virtù di quella che abbiamo chiamato profondità del pianeta.

È su questo piano che bisogna porre la questione se l’Antropocene sia o no un evento. È del tutto evidente, come si è detto, che da un punto di vista della storia complessiva del pianeta Terra, la nostra epoca geologica non è che l’ennesimo rivolgimento di una lunga serie di trasformazioni. Perché dunque, uno dei più importanti testi dedicati a tale concetto si intitola «l’Evento Antropocene»? Precisamente perché dal nostro punto di vista, cioè dalle nostre scale temporali, l’Antropocene è qualcosa che ha un inizio, ma non ha una fine: esso durerà per talmente tanto tempo che possiamo definirlo senza rischio di esagerare una condizione durevole. È per questo che Bonneuil e Fressoz giungono a rifiutare la nozione di crisi ecologica: essa fa intendere che si possa in qualche modo uscire, che la nostra condizione possa in qualche modo terminare. L’Antropocene, invece, è una «biforcazione geologica» da cui nessuna lotta e nessuna rivoluzione ci farà mai tornare indietro4.

[…]

Quello che conta, nel concetto di Antropocene, è precisamente il contrario di quanto, solitamente, si pensa. Lungi dal rivelarci una straordinaria forza dell’essere umano e la sua liberazione definitiva dalla Natura, esso rende definitivamente chiara la potenza abissale della Terra. La nozione di “Antropocene” ci fa comprendere come, da un lato, la vita non possa essere che nel nostro pianeta a un certo stato della sua storia e come, dall’altro, non ci sia possibile decidere per la Terra e muoverci, a nostro piacimento, tra Olocene e Antropocene. Si può affermare che una ricerca sull’Antropocene intrapresa a partire dalla sua definizione geologica porta alla scoperta di un vero e proprio protagonismo del tellurico che ha molto poco a che fare con il discorso prometeico sull’Antropocene. È in questo senso che, per ogni vivente, oggi, la Terra è l’Antropocene. Noi, per moltissime generazioni, non conosceremo più una Terra fuori dall’Antropocene e abbiamo abbandonato per sempre quella dell’Olocene: ogni società di cui possiamo minimamente prevedere l’avvento si darà all’interno di una Terra relativamente trasformata e dovrà confrontarsi con un Sistema planetario agitato5, anche dopo un’eventuale riconfigurazione complessiva degli attuali rapporti socio-politici di forza.

Tutto ciò ha una serie di esiti decisivi per una teoria critica dell’Antropocene. Da un lato, infatti, essa non rinuncia alla de-naturalizzazione del nostro presente, facendosi forza di tutte le ricerche analizzate nel capitolo precedente, riuscendo cioè a tracciare una genesi determinata spazio-temporalmente dell’Antropocene slegata da un’essenza umana negatrice. Questo è fondamentale perché rende il nostro presente non necessario e quindi trasformabile. In questo senso, il problema dell’origine così analizzato dissolve anche il terzo presupposto del discorso prometeico sull’Antropocene, rimuovendo il teleologismo assoluto che si è visto essergli proprio.

Dall’altro lato però, grazie all’elaborazione del problema della condizione, la teoria critica diviene veramente tale, nella misura in cui essa deve necessariamente avere un carattere affermativo, cioè prefigurare in qualche modo un mondo differente e migliore rispetto a quello a cui si contrappone, a partire dalle contraddizioni di quest’ultimo. In altre parole, la visione dell’Antropocene delineata nelle pagine precedenti non solo rende possibile sostenere che parte di ciò che è realtà oggi (come l’uso massiccio di combustibili fossili) non è necessario, ma anche in che senso questa parte di realtà deve essere rimossa e in che direzione effettiva deve volgersi l’alternativa. Senza presa di posizione verso un futuro qualificato politicamente la critica rischia di risolversi nella mera negazione della presenza.

I processi trasformativi che una teoria critica dell’Antropocene può delineare hanno sempre una direzione che assume come proprio criterio la nostra stessa epoca geologica come condizione. Senza il riconoscimento di una certa realtà di questa condizione e dei fenomeni che la costituiscono, l’identificazione delle contraddizioni nel presente rischia di divenire fine a sé stessa: al contrario, quelle contraddizioni devono essere rilevate proprio tra il modo di produzione attuale e quella condizione (quella dell’umano sulla Terra come “corpo pieno”, cioè con una serie di qualità non rimuovibili). Una forma di realismo è dunque indispensabile alla critica affinché essa conservi il suo criterio.

La critica stessa, dunque, più che immanente6, diviene così imminente, cioè legata non solo a contraddizioni inter-umane, ma anche a quelle tra la società e un suolo che non può mai essere del tutto annullato. Non si tratta cioè solo di vedere cosa, nel contesto sociale dato, contraddice le aspettative e i bisogni delle soggettività ivi presenti, ma anche in che modo questa forma sociale e politica manca di trovare un equilibrio con la Terra come suolo.

Per critica imminente si intende, dunque, una critica che assume come criterio di valutazione etico-politico una determinata condizione degli umani e dei viventi: in altri termini, essa ha un criterio non esclusivamente storico, ma ontologico. In questo modo, essa è in grado di donare dei parametri per mappare i conflitti sociali e politici, che non sono più, così, tutti uguali a patto che dissolvano l’ordine esistente, ma vengono valutati a partire dal movimento che sono in grado di determinare verso una forma sociale che ha una serie di caratteristiche minimamente identificabili in quanto società interna all’Antropocene. Diviene così possibile fotografare una specifica situazione storico-naturale e vedere come in essa gli attori non si equivalgano mai compiutamente7. Da un lato vi è chi agisce per dare al nostro mondo storico una forma in rapporto a una condizione terrestre manifesta, dall’altro vi è chi vuole perpetrare un modo di produzione che ha mostrato tutta la sua pericolosità per gli umani e i non umani.

La prospettiva politica che emerge da questo modo di pensare l’Antropocene non assume per nulla una postura arrendevole nei confronti dello stato di cose presente. Al contrario essa si fa carico della realtà di un mondo naturale autonomo e non appropriabile, ponendosi criticamente nei confronti di quelle posizioni che, come sottolinea Stefano Righetti, esprimono

«un giudizio che si è storicamente sedimentato in ambito politico e sociale (o perfino culturale), riguardo al “cambiamento” del sistema, e utilizzarlo per giudicare l’assetto di un altro tipo di equilibrio, qual è appunto il sistema ambientale, assumendo nei confronti dell’ambiente e della natura lo stesso atteggiamento (o lo stesso giudizio) che si è soliti adottare, per esempio, nell’ambito politico.»8

Siamo dunque lontanissimi dalla prospettiva, già citata, di Scranton per cui, nell’Antropocene, si tratterebbe di imparare a morire9. Al contrario, un’ecologia politica all’altezza di una teoria critica dell’Antropocene si propone di rivoluzionare i rapporti sociali e socio-naturali, nella misura in cui sono superati dalle loro contraddizioni interne e soprattutto dalla contraddizione tra essi e la nostra condizione. Al contempo, tuttavia, questa forma di politica ha tra i suoi principali obbiettivi la conservazione e il ristabilimento di un certo equilibrio tra umani e non-umani, forma sociale e ambiente, dentro l’Antropocene, cioè dentro l’unico orizzonte che abbiamo a disposizione e che non possiamo dismettere.

Superando un’antica distinzione, essa è tanto progressista per quanto riguarda i rapporti sociali quanto conservatrice per quanto riguarda gli eco-sistemi naturali e, in generale, i parametri-soglia che caratterizzano il Sistema Terra. In quest’ultimo aspetto è da rivenirsi l’opportunità di una critica imminente al prometeismo da cui il modo di produzione capitalistico e i rapporti sociali che lo costituiscono sono inseparabili.

Questa ecologia politica sarà necessariamente un pensiero istituente, cioè una prospettiva che non si propone né di creare un mondo nuovo dal nulla, né di conservare in toto quello che c’è. Sarà, piuttosto, la progettazione sempre in discussione di una forma sociale in un mondo complicato, in cui cioè tutta una serie di condizioni sono in pericolo, nonché dotato di una certa solidità, di una certa resistenza che non può essere annichilita. Vi è un rapporto inscindibile tra il concetto di istituzione e quello di Natura, nella misura in cui non vi può essere la prima senza la seconda, la quale, essendo il suolo della vita degli esseri umani, lo è anche delle loro società. L’intero movimento teorico e pratico della decrescita, soprattutto nelle sue intersezioni con i movimenti post-coloniali, femministi e comunisti, pare non avere, in fondo, altro scopo che questo. Esso mira alla trasformazione radicale dello stato di cose presente avendo come criterio non solo le contraddizioni effettive del modo di produzione, ma anche quelle tra quest’ultimo e una condizione che non possiamo rimuovere in alcun modo. In altre parole, la società che questa teoria critica ha al contempo come condizione e obbiettivo è una forma sociale in grado di consentire agli esseri umani di abitare l’Antropocene come una condizione che essi non hanno generato in toto, ma che oramai li accomuna. In questo senso vivere nell’Antropocene significa abitare un pianeta le cui risposte sono non lineari e scarsamente prevedibili.

Lungi dall’auspicare un qualche primitivismo, per definizione impossibile giacché non vi è alcuna Natura armonica a cui tornare, ma solo una Terra che è allo stesso tempo casa e pericolo in forza della sua agentività indomabile, questa teoria critica impone la costruzione di un «popolo che abita»10, una comunità di umani e non umani in grado di riprodursi in un orizzonte che essi non controllano e con cui si trovano oggi faccia a faccia.

A queste considerazioni, che rimandano a una prospettiva che possiamo definire realista, può essere rivolta la classica obiezione secondo cui questo modo di intendere le cose rischia di creare una posizione essenzialista, che cioè voglia prescrivere una forma assolutamente determinata alla realtà socio-politica. In altre parole, ci si potrebbe accusare di usare la realtà come un “martello” per affossare l’avversario. A questa obiezione è possibile rispondere in due modi diversi e tuttavia intrecciati: il primo è che la realtà a cui si fa riferimento qui è quella del Sistema Terra e dei suoi eco-sistemi viventi. È cioè una realtà per definizione oscura e mai del tutto visibile. Non si possono trarre indicazioni complessive da essa: non ci vengono offerte tavole della legge, ma solo soglie, limiti più o meno definiti e la consapevolezza che ogni nostra attività ha sempre dei riscontri e riposa su un suolo più fondamentale. Come già affermato, tale realtà è condizione, limite: non appartiene all’ambito del diritto positivo.

La seconda risposta la si lasci a Karl Marx. Descrivendo la «realtà così com’è» del processo storico illuminato dalla dialettica nella sua forma razionale, egli mostra come sia proprio questa realtà, nella sua solidità incontrollata e contraddittoria, a scatenare il punto culminante del ciclo periodico del modo di produzione capitalistico: la crisi generale. È tale crisi, come manifestazione di questo processo materiale-reale, che «caccerà in testa la dialettica perfino ai nati con la camicia del nuovo sacro impero prusso-germanico»11. Forse, che questo reale con cui siamo a confronto possa servire come un maglio per istituire una forma sociale e politica sempre aperta e rivedibile, eppure nuova e duratura, non è un male. Una teoria critica dell’Antropocene non si propone che di donare a questo movimento reale, nel suo abbattersi al contempo per distruggere e istituire, un minimo di forza in più.


1 Ivi, p. 61.


2 T. Tyrrell, J. G. Shepherd, S. Castle, The long-term legacy of fossil fuels, «Tellus B: Chemical and Physical Meteorology», 59:4, 2007, pp. 664-672.


3 D. Archer, The Long Thaw. How Humans are changing the next 100,000 years of Earth’s Climate, Priceton and Oxford, Priceton University Press, 2009, p. 6.


4 C. Bonneuil, J-B. Fressoz, La Terra, la Storia, noi, cit., p. 26.


5 Si tratta, naturalmente, di un “sempre” da intendersi solo su una scala temporale umana.


6 Su questo concetto e sui suoi rifeirmenti classici si veda M. Polleri, La critica immanente e il posto del conflitto. Sulla “quarta generazione” della Teoria critica, in A. Di Gesu, P. Missiroli, (a cura di), Almanacco di filosofia e politica 3. Res publica. La forma del conflitto, Macerata, Quodlibet, 2021, pp. 253-266.


7 In un contesto teorico differente, Marchesi ha parlato di «geometria del conflitto». F. Marchesi, Geometria del conflitto. Saggio sulla non-corrispondenza, Macerata, Quodlibet, 2020.


8 S. Righetti, La ragione ecologica. Saggi intorno all’Etica dello spazio, Modena, Mucchi, 2017, p. 140.


9 R. Scranton, Learning to die in the Anthropocene, cit.


10 P. Missiroli, Un popolo che abita, «Effimera», 2020, online.


11 K. Marx, Das Kapital, in Marx-Engels Werke, Berlin, Dietz Verlag, 1956-1968 [1867]; tr. it. Il Capitale. Libro primo, Torino, UTET, p. 88.


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