14.01.2023
Rubo a Marie Cardinal un titolo di un libro che ho molto amato: Le parole per dirlo. Per dire cosa accade nel nostro quotidiano, nelle città che attraversiamo, nei nostri tempi ormai diversamente scanditi. I tempi delle emergenze infinite stanno ridisegnando i nostri modi di abitare il quotidiano e soprattutto di vivere le città.
Le metropoli ci restituiscono paesaggi in trasformazione, vissuti freneticamente, con rabbia e intolleranza. Come se si ballasse ai margini di un futuro nebuloso e sempre più incerto. Che ristoranti, bar, negozi siano sempre più affollati non deve stupire, i sensi di colpa che non sono mai serviti a nulla, tantomeno ora possono esercitare un movimento critico che assuma il problema delle crescenti povertà e divari sociali.
Si spende, si consuma, ci si indebita, si parte etc. ma, a ben guardare gli spazi urbani appaiono, dietro le apparenze scintillanti, sempre più tristi e vuoti, privati di senso. I poveri, nonostante le code presso gli istituti di assistenza, spariscono, devono sparire, non fanno parte di questo vortice frenetico e incattivito del nostro tempo. La città dei cancellabili è la città del vuoto esistenziale per le piccole singole vite chiamate a confrontarsi a gareggiare e competere e poi restare isolate in appartamenti piccoli e carissimi, in luoghi in cui si spende la vita dei nuovi automi.
La città odierna restituisce queste scritture. Città impreparate, volte a costruire icone senza futuro, meravigliosi edifici che sanno di macerie, di un tempo, di un vivere che non c’è più, e ancora città “mordi e fuggi”.
Il futurismo del Terzo Millennio nelle sue configurazioni architettoniche, nelle sue strategie urbane si dimostra rapace, articolando intorno ai suoi Skyline ragnatele che scavano in vaste aree dei territori connessi e non solo. Strutture di scavo, enclave di sottrazione ormai ben lontane dalle global cities di cui parlava Saskia Sassen.
Forse uno dei più acuti indagatori delle geografie urbane contemporanee è stato Mike Davis che ha saputo cogliere i bordi spesso oscurati di questo futurismo, delle tecnologie applicate a improbabili paesaggi violenti nella loro stessa estetica e per questo accattivanti.
La moderna arte che disegna le principali città del mondo ricco è un costrutto fuorviante di comunicazioni fasulle, laddove il verde, gli spazi, i luoghi di incontro mancano e vengono costantemente sottratti all’abitare dei molti, questi stessi simulacri vengono reinventati e riposizionati per dimore esclusive, per ambienti esclusivi, ed ecco che le piante si arrampicano sui muri, che le piscine si affacciano dai tetti, che il lusso scintillante non solo dichiara di voler chiudere con ogni passato, ma soprattutto di voler ignorare il presente. Le guerre, le povertà, la cancellazione degli ultimi sono la ragnatela che il tecno-futurismo divora in un movimento di incessante predazione e cancellazione.
Le “parole per dirlo” sono divenute difficili, quasi impronunciabili poiché l’assillante litania della comunicazione che attraversa il quotidiano, assedia l’abitare, precarizza lavoro e le esistenze ed è strutturalmente intrecciata con il meccanismo paure, vacuità, noia, disaffezione.
Il tecno-futurismo non vuole indicare prospettive proprio perché è troppo impegnato a cancellare il presente rendendolo opaco. È una narrazione totalitaria quella in cui siamo immersi. La tanta evocata resilienza non è percepibile, nelle strade, nelle case, nei luoghi di incontro la violenza e l’aggressività implodono ed esplodono. L’incidente, per riprendere Paul Virilio, è il nostro quotidiano, il cielo sopra le città.
L’obsolescenza dell’umano ben indicata da Gunther Anders diventa così un radicale sommovimento della storia che in modo sempre più immemore separa i vivi, coloro che possono vivere, da coloro che non ne hanno i mezzi.
Eppure nella ragnatela di questi quadri urbani non smettono di intrecciarsi fili di narrazioni diverse, di sperimentazioni altre che il più delle volte accadono in luoghi transitori, poiché lo spazio è davvero oggetto di una contesa sempre più accanita.
In queste rare diramazioni ci si ostina a sperare a immaginare: bar, case, spazi sociali che per quanto residuali continuano a prodursi dietro, o dentro, il frastuono delle città deprivate di luoghi un po’ più felici.
“Le parole per dirlo” forse le ha trovate un altro grande scrittore, Milan Kundera quando riflettendo sull’autonomia degli oggetti tecnici, che costellano il nostro quotidiano disegnandone lo spazio e modificandone il tempo, scriveva ne La Lentezza: “La velocità è la forma d’estasi che la rivoluzione tecnologica ha regalato all’uomo. A differenza del motociclista, l’uomo che corre a piedi è sempre presente al proprio corpo, costretto com’è a pensare continuamente alle vesciche, all’affanno: quando corre avverte il proprio peso e la propria età, ed è più che mai consapevole di se stesso e del tempo della sua vita. Ma quando l’uomo delega il potere di produrre velocità a una macchina, allora tutto cambia: il suo corpo è fuori gioco, e la velocità a cui si abbandona è incorporea, immateriale – velocità pura, velocità in sé e per sé, velocità estasi”.
Quest’estasi opaca adombra un po’ il quotidiano urbano tecno-futurista in cui siamo immersi, l’estasi è utilitarista e il meccanismo di sottrazione più forte, restano però le diramazioni della tela che hanno la capacità di continuare a prodursi anche dopo essere state lacerate.