Sull'isolamento e la comunicazione
Gianluca Viola

15.01.2022

Il celebre psichiatra statunitense Irvin D. Yalom, così attento nella pratica terapeutica e nella sua scrittura ai grandi temi del "negativo", ha distinto tre diverse forme dell'isolamento: l'isolamento interpersonale – la solitudine come distanza dalle altre persone; l'isolamento intrapersonale – spesso trattato nella psicopatologia in quanto eliminazione, da parte del soggetto, di intere parti di sé; e infine l'isolamento esistenziale.

Riguardo a quest'ultimo, egli scrive: "L'isolamento esistenziale si riferisce a un abisso incolmabile tra un individuo e ogni altro essere, ma anche a un isolamento più fondamentale, una separazione tra l'individuo e il mondo" (Irvin D. Yalom, "Psicoterapia esistenziale", Neri Pozza, p. 433). Riferendosi soprattutto alla filosofia di Heidegger, lo psichiatra esemplifica questo sentimento di profondo isolamento attraverso un confronto con la morte.

Come ha sostenuto il filosofo tedesco in Essere e Tempo, la morte è la possibilità più autentica e più propria del Dasein, dal momento che essa, svelando la finitudine esistenziale che è propria di ogni uomo, svela allo stesso tempo il poter-essere del progetto, la struttura stessa dell'esistenza in quanto possibilità di scelta.

L'angoscia, come Stimmung decisiva alla luce della nuova formulazione del problema della morte, non irrigidisce il Dasein in una pessimistica attesa di questo momento cruciale, bensì consente quella sorta di "risveglio" che fa passare l'uomo dalla condizione inautentica di reificazione in una delle particolari possibilità dell'esistenza, alla condizione autentica che struttura l'esistenza appunto in quanto progetto e in quanto possibilità di scelta sempre aperta - di fronte all'orizzonte della morte, che resta l'impossibilità di ogni possibilità.

A partire da queste considerazioni, apparirà chiaro quanto l'esperienza della morte – e segnatamente, l'esperienza della propria morte, poiché qui non si tratta certo del possibile incontro con la morte che avviene nella vita quotidiana di ogni singolo uomo, bensì della morte come "struttura a-priori" dello stesso Dasein - sia un'esperienza assolutamente singolare e, perciò, non comunicabile, non inter-scambiabile, per così dire.

Ognuno muore della sua propria morte: come sottolinea lo stesso Yalom, anche se io decidessi di immolarmi per l'altro, con ciò stesso non assumerei certo su di me il morire dell'altro, ma è sempre della mia propria morte che, al di là del gioco di parole, io morirei.

Nella prima fase della sua storia di filosofo, quella che coincide con l'analitica del Dasein e che precede la Kehre, Heidegger sottolinea a più riprese quanto la morte e l'angoscia che, in qualche modo, ne consente il palesarsi nell'orizzonte del progetto, permetta all'Esserci di sottrarsi alla de-cadenza nell'universo quotidiano della significatività e del "Si" impersonale e di ritornare all'attenzione doverosa verso la propria particolare situazione esistenziale.

Il prezzo di questo svelamento è però, appunto, l'isolamento esistenziale: la coesistenza viene subordinata alla Sorge, alla cosiddetta "cura", struttura fondamentale del Dasein, che è espressione, in un certo senso, di un possibile rapporto tra noi e gli altri che mantenga ben distinti e, appunto, isolati i due poli della relazione.

La cura autentica è, infatti, sempre la cura per ciò che vi è di più proprio ed essa ha bisogno, per darsi in quanto tale, necessariamente della condizione di isolamento esistenziale descritta da Yalom, come separazione fondamentale tra il soggetto – tra una possibile soggettività – e il mondo.

Sembra che lo psichiatra americano – e ciò vale ancor di più per le successive considerazioni sull'assenza di senso – non possa rinunciare ad una posizione teorica che potremmo definire "nichilismo sartriano": l'isolamento è una struttura fondamentale dell'esperienza umana e, a partire dall'isolamento, dalla posizione di un Io e dalla separazione tra Io e mondo, comincia la psicoterapia in quanto costruzione di relazione e in quanto donazione di senso che è sempre addebitata, però, alla soggettività del singolo paziente.

Questa forma di pericoloso nichilismo che si è oggi imposto come paradigma fondamentale della struttura psicologica della nostra società era stato denunciato, a suo tempo, da un autore che, invece, è oggi considerato generalmente un vero, autentico nichilista; poiché alla filosofia di Georges Bataille è spesso dedicato questo appellativo, varrebbe la pena chiedersi: che cos'è davvero il "nichilismo" per Bataille?

A questo interrogativo ha risposto nella maniera più chiara e brillante Roberto Esposito, laddove ha scritto che: "Il nichilismo, per Bataille, non è la fuga del senso – o dal senso – ma piuttosto la sua chiusura dentro una concezione omogenea e compiuta dell'essere. (…) Ciò che ci sottrae alla nostra alterità bloccandoci in noi stessi; facendo di quel noi una serie di individui compiuti e rivolti al proprio interno, interamente risolti in se stessi" (R.Esposito, "Communitas. Origine e destino della comunità", Einaudi, p. 158).

A queste considerazioni è lecito accostare una splendida pagina di Bataille, contenuta nel saggio sull'amicizia e che recita: "Nella misura in cui le esistenze appaiono perfette e compiute, rimangono separate, chiuse su se stesse. Si aprono soltanto attraverso la ferita, che è in loro, del non compimento dell'essere. Ma attraverso quello che si può chiamare non compimento, nudità animale, ferita, esseri innumerevoli e separati gli uni dagli altri, comunicano e nella comunicazione dall'uno all'altro prendono vita perdendosi." (G.Bataille, "L'amicizia", SE, p. 19).

D'altra parte, in moltissime opere del pensatore francese, è facile incappare in espressioni del tipo: "l'essere isolato non esiste"; oppure "l'essere isolato è un'illusione". Ciò che Bataille vuole sostenere è che l'isolamento non può darsi in quanto condizione ontologica, poiché è semplicemente illusorio porre l'essere che noi siamo come qualcosa d'isolato rispetto a un "altro", a un "oggetto", fosse anche il "mondo", che ad esso si oppone.

Alla posizione di un Io chiuso, vincolato, protetto e conservato subentra invece l'esposizione totale a cui la soggettività è chiamata, esposizione che coincide con il suo stesso essere-nel-mondo: tale esposizione, che Bataille definisce "ferita" o "lacerazione", oltre ad assumere uno statuto esistenziale - che richiama il tema della "comunicazione" tra gli esseri illusoriamente dati come separati – pretende un momento ontologico fondamentale: è proprio perché è in primis l'essere stesso a darsi come qualcosa di incompiuto, di in sé lacerato, l'isolamento degli esseri particolari, semplicemente, non esiste; la composizione dell'essere si dà solo a partire dalla comunicazione, per così dire, "negativa" - a partire dalla mancanza, a partire dalla perdita – che porta gli esseri particolari a congiunzione.

Ancora una volta, è proprio la riflessione sulla morte che segna irreversibilmente il corso di questi pensieri: come in Heidegger così in Bataille il senso ultimo, profondo, della vita si trova nella morte. Ma, a differenza del filosofo tedesco, lungi dal condurci all'isolamento esistenziale, la riflessione sulla morte svela ben altro: come sottolinea ancora Esposito, infatti: "la morte è la nostra comune impossibilità di essere ciò che ci sforziamo di restare – individui isolati" (R.Esposito, op.cit., p. 126).

Poiché è negli stati emotivi più estremi e nelle situazioni di maggior perdita del "controllo" che si può esperire l'intensità della comunicazione, essa si manifesta sempre quando la vita è spinta al di là di se stessa, appunto verso la morte come condizione di completa esautorazione della soggettività e di ogni Io.

Spinti davanti al proprio abisso, gli esseri particolari, illusoriamente dati in quanto separati, esperiscono non certo la condizione d'isolamento esistenziale come condizione fondamentale del proprio stare al mondo, ma quella forma brutale e intensa di comunicazione "letale" - chance nicciana che pone la perdita in quanto maggior guadagno – chiamata da Bataille, "amicizia".

Al fondo della riflessione batailliana sulla morte non troviamo, come in Yalom e nel primo Heidegger, l'affermazione dell'isolamento, bensì una particolare idea di "comunità", che nel secondo Novecento e fino al più recente passato, sarà destinata a una grande fortuna critica; riflessione incompiuta che giunge fino a noi per essere, come probabilmente lo stesso Bataille avrebbe voluto, "oltrepassata".