Sulle trasformazioni del carattere distruttivo: a partire dalla contingenza odierna
Ubaldo Fadini

05.06.2021

Premessa. Quello che segue, sulla base della fase che si è aperta a partire dal marzo dello scorso anno, ha come suo presupposto, uno dei tanti e forse non quello più importante... perché decisamente parziale, una fulminante considerazione di Walter Benjamin:

 “Il carattere distruttivo non vede nulla di duraturo. Ma proprio per questo vede strade dappertutto. Dove altri impattano su muri o su montagne, anche lì egli vede una strada. Ma proprio perché vede ovunque una strada, deve anche sgomberarla ovunque. Non sempre con la violenza bruta, talvolta essa è raffinata. Poiché vede ovunque strade, egli stesso sta sempre al crocevia. Nessun istante può sapere quello che porta il successivo. Lascia in rovine l'esistente, non in nome delle rovine, ma della strada che le attraversa. Il carattere distruttivo non vive del sentimento che la vita sia degna d'essere vissuta, ma che non valga la pena il suicidio” (W. Beniamin, Il carattere distruttivo, in W. B., Scritti politici 1, a cura di Massimo Palma, Editori internazionali Riuniti, Roma, 2011, p.243).

La ricerca è allora rivolta al delinearsi di un “nuovo” carattere distruttivo, attento però a qualificare la sua pratica nel segno di un più di autonomia, di reale emancipazione (sempre parziale, provvisoria/revocabile nei suoi assetti e nelle sue configurazioni), con un pizzico di fiducia, forse pure abilmente occultato, nella possibilità di vivere diversamente da come attualmente viene imposto.

Torno ancora su alcune formulazioni di uno studioso, Edgar Morin, certamente attento alle modalità d'impiego del “nostro” presente che hanno come obiettivo quello di ipotecare il futuro, cioè di de/finirlo, di renderlo nella veste di “futuro passato”, in una forma essenzialmente afferrabile. La mia convinzione è che sia proprio dal confronto critico con il presente, nella rilevazione delle sue “aperture” e delle sue “crepe”, che possa scaturire qualcosa di significativo per il rilancio di una consapevolezza minimamente soddisfacente delle trasformazioni attuali della relazione antropo-ecologica. Su tali cambiamenti tanto è stato osservato e ancora molto si tenta opportunamente di mettere a tema: si pensi esemplificativamente alle analisi di diverso segno sull'irruzione, oggi sempre più clamorosa, dell'umanità nel complesso delle vicende del nostro pianeta o anche, cambiando prospettiva, sulla rilevanza dell'“incidente” (Paul Virilio), in una qualche maniera, per il ripresentarsi del protagonismo del “naturale”, meglio: dello “storico-naturale”.

Tutto spinge in breve a sottolineare l'importanza di realizzare finalmente dei limiti ai vari fattori che sembrano porre seriamente in crisi la nostra avventura antropologica: la crescita economica e i suoi esiti di rilievo finanziario , l'urbanizzazione incessante e così via, a cui alcuni aggiungono pure il bisogno di fissare dei limiti alla “nostra” mente, alla “nostra” razionalità (magari con un occhio di riguardo, in tale direzione, alla prepotenza scenico-attoriale dell'intelligenza artificiale). Porre dei limiti appare così come la premessa per una gestione non disprezzabile di un passaggio delicato della storia mondiale, colto nelle sue indubbie e inquietanti criticità e anche – perché no? – nei suoi potenziali di cambiamento radicale.

L'idea è quella di assumere seriamente tali criticità e però di non consegnarci ad un qualche pessimismo irrimediabile, mascherato spesso con moralismi insopportabili o con giravolte etico-politiche di scadente qualità. La relazione antropo-ecologica è certamente in crisi ma questa può essere anche la sua forza (forse è sempre stato così...), nel senso che ciò può portare a non tentare semplicemente di sfiancarsi nella ricerca di limiti “migliori”, “opportuni”, ma di riconoscere invece le parzialità che sono in gioco, le parti e le poste del contendere, in un quadro che attualmente è quello delineato dalle dominanti economico-finanziarie del nostro tempo. Nel riconoscimento complessivo del presentarsi decisivo delle parzialità, si tratta allora di prendere appunto parte. A che cosa? A tutto quello che si manifesta come emergente, in una qualche forma, e che può stimolare l'apertura di prospettive di più ampio respiro teorico, etico “e” politico.

Viviamo, come si sottolinea ripetutamente, in un'epoca di grande disorientamento e allora a me pare che un modo, tra gli altri, per tentare di orientarsi differentemente sia quello della ripresa dell'avventura del pensiero, della ricerca soprattutto delle pratiche materiali di un esistere consapevole del carattere illusorio di quell'immagine corrente che ci restituisce il futuro come qualcosa che si deve far rientrare a tutti i costi nella logica dell'iperconsumabile, come un tempo da razionalizzare nella affermazione ineludibile della legge del plusvalore. Se però si vuole differentemente, c'è invece oggi da scommettere, da puntare su un futuro di possibilità diverse (certo anche di pericoli), rispetto alle quali pare importante rischiare delle decisioni, nel senso di piegare la metamorfosi antropologica in atto nella direzione di un umano inaudito, mai visto prima, e non di una sua sottrazione spacciata per emancipazione o, ancor peggio, di un suo limitarsi/qualificarsi in rapporto a pochi “soggetti”, con le loro devastanti “bassezze d'animo” (Adorno-Horkheimer), per non dire altro.

Ma come operare in tal senso, come procedere? E' importante fare i conti, a mio modo di vedere, con ciò che è accaduto, anche e soprattutto con la pandemia, con ciò che costituisce un problema reale e che ha appunto aperto uno spazio di materia e di pensiero che impone di non dare per de-terminabile il futuro sulla base dell'affermazione del dettato ormai logoro dell'antropologia neo-liberale, con il suo composto ben controllato di affezioni previste, di rapporti-relazioni in partenza assolutamente normati (si pensi, per esempio, all'immagine del “capitale umano”), di prestazioni da bene-dire come vantaggi specifici per coloro che non provano la minima “vergogna” nell'abusare dell'altro-da-sé (che è in effetti da intendere come parziale “altro-in-sé”).

Il regime dato di dominazione, quello che si è concretizzato negli ultimi decenni, presenta delle crepe nel momento in cui rivela il suo intento in un modo talmente chiaro da stimolare la questione se sia possibile cogliere “i prodromi” delle forme (forze) di resistenza, di nuove forme di opposizione all'approfondimento delle dinamiche di super-sfruttamento, di assoggettamento/subordinazione, che non vogliono residuare nient'altro che figure di servitù “piena”, facilmente confondibili con una condizione di apparente libertà.

“Nuove forme di resistenza”: la formula è deleuziana, dell'ultima parte della sua ricerca, veramente ammirevole perché oltretutto in netta contro-tendenza (in apertura degli anni '90) rispetto a ciò che stava prendendo inesorabilmente campo, con la sua particolare e trionfante messa in ordine di corpi e pensieri irregolari e pervasi da virtualità da piegare a tutti i costi alle esigenze del cosiddetto “capitalismo da iperproduzione”, che “vuole vendere servizi e vuole comprare azioni” e che ha bisogno perciò di soggetti disposti e ben addestrati allo svolgimento del compito prefissato.

Ecco: Gilles Deleuze, che qui voglio riprendere contro i tanti che lo riconducono in un qualche modo alla dogmatica neoliberale, proponendo senza sosta le solite chiacchiere sul “soggetto desiderante”, tutt'al più riferibili, volendole tradurre efficacemente, al centro commerciale di Dawn of the Dead (1978) di George A. Romero. Il filosofo francese ha spesso riflettuto sulla coppia affetti-affezioni, indicando proprio nell'affetto la risorsa per un nostro divenire differente, “inumano”. Rispetto agli affetti conosciuti, si tratta certo di riaffermarli nelle loro potenzialità di cambiamento ma accanto a ciò appare essenziale inventarne altri, “sconosciuti o misconosciuti”.

C'è una raffigurazione precisa del compito che si presenta nella considerazione degli “stati” (dei personaggi) di Samuel Beckett come espressioni di affetti “grandiosi”, che lo sono tanto più effettivamente quanto più sono “poveri di affezioni”. E le “affezioni” valgono qui come rapporti/relazioni normati/normali, abituali, correnti, istituiti, all'altezza delle mutazioni dell'ordine antropologico (di segno neoliberale) stimolate dagli sviluppi capitalistici che richiedono individualità elasticamente predisposte all'assunzione del super-valore del continuo e dell'illimitato (del controllo...).

Disattivare quest'ultimo, nelle sue modulazioni riproposte incessantemente attraverso lo stesso variare delle forme, può porsi come una regola comunque complicata e di difficile effettuazione dell'atto del resistere: ciò vuol dire coltivare l'inumano come possibilità concreta di una de/specificazione – alternativa a quella dell'antropologia neoliberale che decisamente la orienta nel senso della cattura di ciò che conta in essa a partire dalla logica di sfruttamento propria del modo di produzione capitalistico – del soggetto: possibilità che richiede il rischio di una decisione a favore dell'approfondimento della dismissione delle affezioni date. A vantaggio cioè di un diverso sentire e di un pensare differente, del manifestarsi di singolarità capaci di rapporti/relazioni “profittevoli” per tutti.