Sull'assenza e sul cercare
Ubaldo Fadini

20.08.2021

Sarà che in questo periodo tutto si fa assente, più del solito, ma quello che mi colpisce in questi giorni è una vera e propria perdita di memoria a livello individuale, per quanto riguarda il sottoscritto, e a livello collettivo. Non posso più di tanto riferirmi a quest'ultimo piano, non ne ho ragioni urgenti, data la mia residuale socievolezza, e forse neppure gli strumenti adatti, a differenza di tanti che rispetto a ciò forniscono un po' dappertutto le loro prestazioni intellettuali, a volte anche con effetti stimolanti.

Riprendo allora il motivo della perdita, che sento particolarmente appropriato a segnalare pure quella trasformazione del quotidiano sotto veste manifestamente coatta che abbiamo sotto gli occhi, favorita dalla contingenza che stiamo vivendo. Dichiaro subito, per chiarezza, qual è l'intenzione che sta alla base di questo contributo: tentare di piegare diversamente questo nostro essere sempre più perduti, non semplicemente dispersi, in un senso che ne individui comunque alcune potenzialità non sottovalutabili, che concernono il “nostro” sentire e dunque, insieme, anche il pensare.

Tra parentesi, potrei aggiungere che da nessun luogo e quindi dappertutto, a prima vista..., arrivano lettere di richiesta di dimissioni, inviti più o meno fatali a dismettere abitudini radicate, punti di vista apparentemente consolidati e pratiche di esistenza compiacenti, che lasciano tutto correre, andare dove si deve – si dice – andare.

Ritorno però al punto di partenza, quello della perdita di memoria. Non c'è niente di più invadente dello sforzo di coloro che si muovono per riempire tale mancanza, laddove si fa “presente” nel tempo di una disidentificazione (individuale) che non lascia margini di recupero alle dinamiche dell'identificarsi con qualcosa, nel segno della reificazione, con qualcuno/a, riuscendo così a contribuire allo spaccio generalizzato dell' “io”, qualificato secondo i regimi dominanti della significazione di “consumo”: con un'aggiunta, che quest'ultima si impone come l'unica pratica in grado di fornire uno pseudo-senso al processo del perdere, inteso come causa e insieme effetto di una appropriazione/acquisizione – di merci – che si vorrebbe illimitata, senza fine, in una dilatazione letteralmente inimmaginabile del venire – sempre – meno; un “venir sempre meno” ricercato a tutti i costi per non morire effettivamente e così pretendere addirittura di andare oltre la morte, il che indica anche, sia detto ancora tra parentesi, il bi/sogno proprio di ciò che in una certa tradizione di ricerca viene etichettato come lavoro morto, passato, e che però aspira, non può fare diversamente, a proiettarsi nel futuro.

Ho scritto sopra del fastidio che si prova rispetto a coloro che spingono per farci ricordare qualcosa, una sorta di imposizione che lascia però sempre il dubbio, una volta che sia accolta in un qualche modo, che il ricordo così riproposto sia realmente “nostro”, ci appartenga, restituendoci infine alla parzialità del nostro vivere.

Non si tratta semplicemente di un fastidio dovuto al fatto che vorremmo dimenticarci, ogni tanto, favorire cioè la disattivazione di ciò che non torna – quasi tutto nel “quadro di società” nel quale ci troviamo – nel nostro vivere. C'è forse qualcosa di più: a me sembra che consista nella sensazione che così facendo si perda della memoria un suo tratto che forse sarebbe opportuno, particolarmente oggi, tenere ben presente.

Vediamo un po' di ragionarci sopra. Mi viene in mente come qualche decennio fa si inscenasse una specie di “elogio della perdita di memoria”: erano tempi di fuoriuscita da situazioni politicamente difficili, nelle quali la sconfitta di progetti e movimenti di contestazione radicale dello stato delle cose allora vigente spingeva appunto a rifiutare interpretazioni di comodo, letture interessate e armate dalla logica del giudizio, sempre di parte, rivolte a penalizzare/colpevolizzare tutto ciò che si era animato, in forme anche stravolte, mediante l'imposizione di una memoria ritrasmessa come una sorta di camicia di forza. In tale ottica, l'elogio della perdita di memoria risultava comprensibile e in fondo pure parzialmente condivisibile.

Ecco, nel presente, nel tempo dell'adesso, mi viene voglia di rimettere in piedi un “elogio della memoria” ma non nel senso di contribuire in tal modo ad una operazione di rattoppamento della nostra identità, di ricucitura delle vesti lacerate, strappate, dell'esperire odierno, delle vicende individuali e collettive (“sociali”). Come realizzarlo, tale elogio? Come impedire che si manifesti come una specie di invito a frenare l'indispensabile – appunto – “allentamento dell'io”, per dirla con Walter Benjamin?

Una risposta non scontata consiste forse nel riproporre la funzione della memoria dalla/nella parte delle realtà organizzate all'interno delle quali articoliamo la nostra esistenza di tutti i giorni. Al di là di disquisizioni di carattere decisamente sociologico, a me interessa cogliere la memoria come una vera e propria “risorsa” che chiama “naturalmente” a decidere – nei suoi confronti – l'approccio e l'utilizzo.

E' stato detto ripetutamente che la memoria permette di distinguere tra ricordo e ciò che è dimenticato, ponendosi così come un fattore decisivo per operare in una qualche maniera e anche come premessa per la realizzazione di qualcosa di identico e dunque ripetibile.

In Niklas Luhmann si trova l'osservazione che la memoria però non vuol dire semplicemente avere la possibilità di ritrovare qualcosa in precedenza dimenticato: al contrario, la sua peculiarità è quella propria del rendere invisibile il passato, di dichiararlo concluso, non cambiabile.

Se si pensa alle realtà organizzate, si può dire certo che la memoria fa i conti rispetto al passato conservando – del passato stesso – soltanto ciò che può essere impiegato nel presente, contribuendo così ad alleggerire il carico delle informazioni e consentendo quindi un più di operatività, di produzione di differenze. Si decide allora per uno spicchio di risorsa, per “un” passato, per un caso speciale che può essere utile nel senso di permettere di gettare una rete di identità sul carattere ignoto del futuro, che al di là di questo resta comunque sempre ignoto.

Non voglio però farla troppo lunga e complicata. Rischiando di andare un po' allo sbaraglio, mi preme sottolineare come nelle realtà organizzate, dove non si muore mai (perché ciò che conta è la funzione da svolgere, opportunamente personificata, e non l'individuo in carne e ossa che la svolge), la memoria risalti all'esterno, per così dire (nell'archivio o da qualche parte sempre così contraddistinta: si pensi al pc che sto impiegando).

E' un punto decisivo quello della messa in ordine, del procedere ben scandito e regolato nel modo dovuto alle memorie contenute, che si manifestano con tatto apprezzabile, con ri/guardo. Ma, anche al di là di questo, è vero che il compito della memoria è quello di aiutare a dimenticare per risultare più operativi ed è in fondo ciò che accade nella iper-domesticazione del nostro quotidiano, laddove la dinamica delle affezioni, degli incontri/scontri, viene sempre di più controllata e, se possibile, ridimensionata fino all'ineffettualità.

L'obiettivo da colpire così facendo, neppure troppo celato, è il nostro “essere di sensazioni”, “di fuga” (direbbero Gilles Deleuze e Félix Guattari), per arrivare a identificarci come numeri, per via di cifre, all'interno di una società di effettivo controllo.

Il risultato dell'assenza, dell'essere sperduti da qualche parte e non si sa bene dove, è appunto l'impoverimento delle affezioni (degli incontri, delle relazioni). Ciò comporta degli stati, delle posture, dei linguaggi che risultano (possono farlo) sempre più strani, singolari, bizzarri: siamo infatti ancora vivi, forse....

Non è un caso che qui si ricordino spesso gli stati di Beckett, che sono degli affetti straordinari proprio perché poveri di affezioni. Ma ripeto: ci vogliono, per “ragioni” loro, di “sistema”: si sarebbe detto una volta, poveri, persi, sperduti. Cosa possiamo fare?

Cercare di sperimentare, di produrre degli affetti mai visti prima o comunque degli affetti in precedenza fraintesi, misconosciuti, equivocati nel modo peggiore. Facciamo leva sul nostro divenire non umano per rilanciare, nonostante tutto, la nostra umanità. Vale sempre qui l'invito a cercare ancora.