07.02.2021
Sull'alterità del senso. A proposito del fare in Edoardo Robino
Ubaldo Fadini
La pubblicazione abbastanza recente di una raccolta di scritti e di immagini (che riproducono delle sculture in legno e in pietra) di Edoardo Robino (1943-1986) permette finalmente di avere a disposizione alcune delle linee di ricerca di un autore tra i più significativi di un periodo storico-culturale importante del nostro passato, che va dagli anni Sessanta agli anni Ottanta del secolo scorso.
Al centro di tali ricerche c'è la convinzione che scultura e scrittura rimandino, in un qualche modo, l'una all'altra. In un appunto del 1984/85, che apre felicemente la raccolta, si può leggere: “Scultura: l'indescrivibile. Scrittura: il descrivibile. La scrittura senza scultura diventa interminabile. La scultura senza scrittura diventa – (è finita) – 'terminata'” (E. R., Dare forma alla contingenza. Scritti e sculture, a cura di Cristina Albin, Vincenza Berta e Jean-Claude Lévêque, Mimesis, Milano-Udine, 2018, p.8). Sono righe indubbiamente felici, che aprono ad un complesso tematico che comprende concetti-chiave come forma, segno, materia, natura, linguaggio, tra gli altri. Ma ciò che colpisce è la centralità del motivo della relazione e quindi della contingenza, nel momento in cui instancabilmente si lavora il mondo del linguaggio, del soggetto/autore consapevole della propria imprescindibile parzialità, e la dimensione naturale, che è il luogo per definizione di un operare che realizza sempre nuove distanze o possibilità di comprensione di quello che realmente si dispone di fronte all'artista-scienzato, come si sottolinea in un altro appunto.
La relazione è dunque quella dell'essere umano, linguisticamente qualificato, con la natura ed è proprio sulla sua contingenza che Robino basa paradossalmente e con fine consapevolezza un operare particolarmente incisivo come artista e come scrittore. E se si riflette sulla contingenza non può che manifestarsi a sua volta il motivo del possibile e, insieme, dell'impossibile, cioè di un possibile da – tentare di – concretizzare nell'inevitabile parzialità dei segni e delle materie comunque elaborate, accompagnati dalla presa d'atto di una impossibilità di fondo a terminare qualcosa, una impossibilità essenziale nei confronti della quale si desidera esserne all'altezza e non cadere nel precipizio della frivolezza, cara ai mercanti di tutti i generi, e della stoltezza esibita senza ritegno, con la presunzione che essa sia ben altro, espressione di uno spaccio di sé e del mondo sotto la maschera comunque di un appagamento “filisteo”.
Colpisce anche la serie degli studiosi chiamati a conferma di un operare serrato, ai limiti di un venir meno che però è schivato dalla presa d'atto che la relazione e, più in generale, i rapporti sono qualcosa di mutevole e di mai pienamente afferrabile anche in quelle che sono le loro effettuazioni, rispetto alle quali bisogna saper prendere tempo e concedere un po' di spazio, senza la pretesa di poter controllare quest'ultimo una volta per tutte. Quello della relazione è un tema dagli svolgimenti spesso imprevedibili e non raramente sorprendenti, in un senso o nell'altro, nel bene o nel male (meglio: “nel” buono o “nel” cattivo): il compito dello scrittore e dell'artista è quello di metterlo a valore riconoscendo il suo esserne parte.
A ciò concorre, come scritto, una costellazione di filosofi, linguisti, psicoanalisti, all'interno della quale si può cogliere un'attenzione particolare ad una linea filosofico-semiologica (a partire da Wittgenstein, arrivando a Barthes e Foucault), a una psicoanalitica (da Freud a Lacan) e infine a quella propriamente linguistica (da De Saussure fino a Jakobson e Benveniste). Queste sono le “matrici” culturali, alle quali è possibile aggiungere, come indica opportunamente Lévêque, gli stimoli provenienti dalla lettura di Bateson e di Deleuze (di quest'ultimo è tenuta presente soprattutto la Logica del senso).
E indubbiamente è il linguaggio a costituire l'oggetto speciale di una indagine che lo comprende nel suo essere sempre e comunque di relazione, quindi contingente e in tal senso riferibile a una condizione d'esistenza complessivamente – anch'essa – caratterizzata dalla provvisorietà/temporaneità di ciò che si palesa: tutto questo Robino lo traduce – sapendo così di tra-dirlo incessantemente, restituendolo in tali termini alla parzialità – in una singolare elaborazione della questione di come vivere nel mondo, di come corrispondergli nella consapevolezza che qualsiasi modalità del rapporto e dell'incontro dell'essere umano con il mondo stesso non può che esprimersi in un operare scritto/artistico costitutivamente aperto e correlato, paradossalmente rigoroso in quella sua in/disciplina di fondo che mette a valore, nel formare, un senso della “ospitalità” diffusa, inclusiva, proprio di quello che si fa incontro dalla parte dell'umano e della natura.