22.02.2021
Sulla miseria del possibile. A partire da un libro di Maria Antonietta Magrini

Ubaldo Fadini

La formula che impiego come titolo di questo mio contributo deve ovviamente molto ad André Gorz e a Gilles Deleuze, nel senso che a me sembra che – quasi – tutto concorra a stravolgere l'osservazione gorziana sulla “miseria del presente” e sulla “ricchezza del possibile”. Quest'ultimo, il possibile, è infatti paradossalmente prefigurato/predeterminato all'interno della situazione che stiamo vivendo. Il trattamento del contingente che si sta sempre più affermando, che s'impone, anche quello angosciosamente vissuto oggi, è rivolto a indicarci delle possibilità che in tempi brevi si sa, si prevede, che si andranno a realizzare in maniera così effettivamente scontata.

E' la “ricchezza” che viene meno e di fronte al dilagare della “miseria” in ogni ambito della nostra esistenza bisogna saper trovare un argine che assicuri un po' di tempo sospeso per ritrovare nel nostro presente comunque “vivo” delle occasioni di rilancio, pure di ri/scoperta, della scommessa dell'impossibile che attraversa gli incontri e che si insiste forse troppo tenacemente a riproporre truccando le carte o alterando le regole del gioco. In questa prospettiva, la mia attenzione va ad alcuni libri recentemente pubblicati, che si muovono per così dire controcorrente: l'autobiografia avventurosa di Gianfranco Draghi, Dal rogo. Prima dettatura veloce del racconto della mia vita (Gaffi, 2020), i ricordi emozionanti di Kiki Franceschi, Tous les rêves du monde. Luoghi e Persone nel vissuto di un'artista contemporanea (Altralinea, 2020) e il viaggio nei tempi e nei luoghi umidi del Padule di Fucecchio di Maria Antonietta Magrini, Con i piedi nell'acqua. Storia di una famiglia e del Padule (Carmignani, 2021).

E' soprattutto su quest'ultimo testo che vorrei soffermarmi, in questa occasione, anche perché lo scenario di bellezza straordinaria dell'area di questo Padule è introdotto dall'autrice con parole che mi trasportano ai luoghi umidi della mia nascita, al Mulino tarcentino, friulano, negli spazi del Menocchio di Carlo Ginzburg: “Sono nata con i piedi nell'acqua del Padule di Fucecchio, accanto alla Pescia (così noi chiamiamo il fiume, al femminile). Sono cresciuta sapendo, con orgoglio, di 'essere una padulina', scontrosa, fiera, testarda come lo sono coloro che vivono a ridosso dell'acqua che scorre, che sorprende, che placa” (p.3). E ancora: proprio sull'immagine del crescere “saltando per le fosse” e dell'arrampicarsi sui ciliegi si apre un passaggio verso qualcosa di poco conosciuto, che può favorire l'incontro con quell'imprevisto che in qualche caso, purtroppo raramente, riconosciamo parzialmente in noi stessi, in quella che risulta forse essere la nostra storia.

E' viaggiando “con i piedi nell'acqua” che l'autrice ci consegna una vita quotidiana contadina, a partire dagli anni della seconda guerra mondiale, di cui si possiede ancora una memoria variegata, che affiora nelle conversazioni/interviste agli esponenti del gruppo familiare di riferimento, quello de “I Mmagrini” (“con due emme iniziali, alla lucchese”). Accanto a ciò, ai paesaggi esistenziali, documenti storici e testi tecnici, che restituiscono un territorio di/segnato incessantemente dal lavoro, spesso sofferto e anche doloroso, di donne e uomini. Colpisce poi il racconto della giornata orribile, il 23 agosto del 1944, quella dell'eccidio compiuto dai tedeschi in ritirata, con la complicità dei fascisti locali, con le tante vittime – e commuove anche il ricordare della zia Erina, interlocutrice preziosa dell'autrice.

Luoghi anche così particolarmente significativi, per via delle vicende accadute, quelli del Padule: ordinati, precisi, sobri, delineati da mani e teste abituate a fare i conti con una natura umida, spesso inclemente ma anche capace di doni delicati, di colori e manifestazioni di vita incantevoli. E' proprio l'incanto ciò che a me sembra importante nel momento in cui si desidera che il passato nella sua immagine sotto veste di cliché cessi infine di esistere per far riemergere segmenti di vita, linee di incrinatura e di rottura, delle intensità che non consentano semplicemente di ritornare. Come afferma Beckett, citato da Deleuze e Guattari, “non viaggiavamo per il piacere di viaggiare, che io sappia; siamo stupidi, ma non fino a questo punto”.

Il viaggio di Magrini non è allora un vero e proprio viaggio, nel senso corrente del termine: è invece il tentativo di mettere a fuoco, nella miseria del presente, una linea di erranza, accanto a quelle consuete, di riaffermare un'attenzione, sempre nel presente, a ciò che quasi impercettibilmente si muove e che ci restituisce così una possibilità di fuga, di vita ulteriore, non dal “mondo” ma del “mondo”, quello del Padule (o quello del Mulino, per quanto mi riguarda). Una fuga che ci porti infine con sé, che ci comprenda subordinando quello che pareva essere il "nostro" tempo.