Sulla goffaggine
Ubaldo Fadini

05.09.2021

Un amico mi chiede il perché del ricorrere – invasivo negli ultimi tempi – alla truffa del collocare alcuni studiosi criticamente inquieti (viva!), cari a tradizioni di pensiero non accomodanti, all'interno di un macro-ambito teorico e pratico che si può etichettare come iper-moderno: ci starebbero dentro, ben ingabbiati (come segretamente e forse, per alcuni, inconsapevolmente si sogna che accada), esponenti del più improvvido neoliberismo ancora marciante e i cultori dei flussi, dei desideri, dei piaceri “per/versi” e chissà cos'altro ancora.

Si cita spesso Foucault e qui penso che scatti l'irritazione nei confronti di una analitica assai rilevante dei rapporti stretti tra la parola e il potere (talmente stretti da mettere radicalmente in dubbio il porsi di un Verbo originario, fondamentale, attaccato purtroppo in quei suoi fatali presupposti di verità, così si ritiene, coltivati da “qualcuno” in grado di ri/velarli sapientemente, dallo scorrere inesorabile del tempo, soprattutto quello complicato e intimamente logorante del “moderno”, con le sue “forze”).

Di Deleuze è meglio non parlare: di solito il trucco consiste nell'affibbiargli l'etichetta di bergsoniano – e solo quella – e così ce lo ritroviamo a disposizione per gli intrugli para-accademici e un po' rancorosi che dovrebbero garantire la sua opportuna marginalizzazione/liquidazione e, nella migliore delle ipotesi, il suo trascorrere sotto il regime del saldo di fine stagione filosofica.

Ma non voglio, in questo contributo per “Tropico”, parlare troppo di ciò. Si tratta semplicemente di un pretesto, quello dell'accanimento “scolastico” così diffuso, a destra e a “sinistra” (?), nei confronti degli studiosi sopra ricordati, per ricordare alcune osservazioni importanti – per me – di Deleuze sul motivo dei confronti, effettivi o “mancati”.

Con uno sforzo di parafrasi: il filosofo francese osserva come sia complicato comprendere quello che viene detto, il problema a cui ci si riferisce, perché spesso il discutere assume un tono particolare, diventa un “esercizio narcisistico”. Importante è invece che si arrivi a comprendere il problema posto dall'altro: è così che non si ha più voglia di discutere con lui e si arriva a proporre un problema differente oppure a procedere insieme, fianco a fianco. Quando si ha un fondo comune di problemi, perché discutere? Sapendo oltretutto che le soluzioni che si possono ottenere sono quelle che ci si merita sulla base dei problemi posti. In fondo, le discussioni non sono altro che delle perdite di tempo che riguardano “problemi indeterminati”.

Questo vale per la discussione, ricercata a tutti i costi, ossessivamente, nel tentativo di ribadire il proprio ego, di centrarlo ancora più solidamente/stolidamente nel prevalere delle “proprie” opinioni ed è anche così che vengono perse le sorgenti di vita e di scrittura, quel fascino e quello stile che esprimono appunto “una sorta di goffaggine, di cagionevolezza, di debolezza costituzionale, di balbettamento vitale”.

Vengono perse tutte le caratteristiche che invece permetterebbero di cogliere quelle combinazioni un po' casuali che ci restituiscono una persona che è effettivamente attraversata e qualche volta stravolta da una potenza di vita rispetto alla quale non possiamo fare altro che cercare di corrispondere in un qualche modo (possibilmente “creativo”) al suo manifestarsi ostinato, forte, perseverante.

Mi piacerebbe in effetti ritrovare ancora la questione, l'arte del costruire i problemi, ciò che stimola l'elaborazione concettuale, in filosofia, e che apre quasi “naturalmente” a dinamiche difficilmente classificabili/etichettabili secondo criteri disciplinari/accademici e che rifuggono dalla pretesa di trovare la risposta definitiva. Ma preferisco invece insistere su un altro “esercizio”, su ciò che produce paradossalmente un meno che può valere come un “più” per coloro che ne sono coinvolti.

Penso ovviamente alla conversazione e qui sottolineo ancora la sua distanza dalle discussioni: a differenza di queste ultime, le conversazioni sono un “esercizio schizofrenico” tra individui che hanno un fondo comune e sensibilità accentuata per “le ellissi e gli scorci”. Esse si presentano come una sorta di “riposo” caratterizzato da silenzi prolungati, da cui possono scaturire delle idee ed è in questo senso che, a differenza della discussione, fanno effettivamente parte del lavoro filosofico. E Deleuze dichiara apertamente anche il “suo” terrore di fronte alla formula ricorrente del “discutiamo un po'”.

Nella conversazione (ci) si perde in un qualche modo, magari temporaneamente; le idee che si manifestano lasciano il campo ad altre idee, a ciò che sta tra di esse, che arriva un po' per caso sotto la veste dell'inatteso, dell'imprevisto/imprevedibile. Si ha a che fare allora con piccoli inciampi, accidenti vari, veri e propri “passi del gambero”, procedure sghembe e apparentemente impraticabili, con quello che in prima battuta appare essere una sorta di disfacimento delle maglie dei discorsi “precotti” a cui attribuiamo un potere regolativo del nostro vivere e pensare quotidiano, in qualsiasi contingenza, anche quella più “eccezionale” (spacciata da “qualcuno” come tale).

Appunto: nella conversazione non c'è quel riaffermare a tutti i costi lo spaccio dell'identità dovuta, assegnata e ricercata a prescindere perché considerata comunque valida e naturalmente “corrente” (si potrebbe aggiungere, in prossimità della ricerca di Paul Virilio) in qualsiasi situazione codificata. La conversazione, per dirla invece a modo quasi “mio”, è disambientante, implicitamente sovversiva, perché non sembra facilmente spendibile come mezzo per arrivare ad un fine da qualcuno deciso: in essa c'è un rarefarsi del senso dell'essere in relazione nel modo preventivato, con le affezioni inevitabilmente regolamentate; qualcosa di elegante fa capolino nei movimenti morbidi, nei silenzi, nelle pause non volute, nella differenza intravista dei cambiamenti posturali.

A volte le parole sembrano rimbalzare e lo sforzo minimo sembra appunto quello di lasciarle cadere, di lasciare andare tutto, in definitiva, per andare dove non si sa, dove non si pensa neppure di arrivare, da nessuna parte, andando così contro i luoghi comuni e le pretese delle persone “per bene”. Nella conversazione è possibile avvertire “il soffio di una vita libera e spensierata in mezzo agli uomini affaccendati” (Antonio Delfini), nel senso che si fa esperienza di un “mezzo” che non può essere facilmente restituito come strumento.

Inevitabile allora il rinvio a Samuel Beckett, quando in L'innominabile rileva come mantenere il silenzio non sia tutto, ma come si debba “anche vedere che genere di silenzio si mantiene”. Si tratta in effetti di mantenere il silenzio che spazia le parole, i gesti, i movimenti ed è tutto questo che si condensa nella conversazione, laddove la vulnerabilità è spia di un desiderio fortissimo di veder passare l'impossibile, parafrasando ancora lo scrittore modenese, ciò che conferma il valore dell'attesa di qualcosa di poco probabile.

Ma l'ho fatta troppo lunga rispetto a quello che voleva essere un semplice omaggio a Rimbaud, alla “goffaggine nella lotta”, che sento particolarmente “mia” in ciò che scrivo e che mi costituisce/caratterizza. Meglio chiudere con un'altra osservazione di Deleuze, considerato spesso come l'“autore”, comunque “incerottato” e in “cattiva” compagnia, di testi “famigerati”: così si sostiene nel clima odierno di una imbecillità dilagante.

Allora si può leggere, dalla parte della lotta, del combattimento: “Quando uno lavora, si trova per forza in una solitudine assoluta. Non si può fare scuola, né far parte di una scuola. C'è soltanto il lavoro nero e clandestino. E tuttavia si tratta di una solitudine estremamente popolata. Non di sogni, di fantasmi o di progetti, ma di incontri. Un incontro è forse la stessa cosa di un divenire o delle nozze.

È dal fondo di questa solitudine che uno può fare qualsiasi incontro. Si incontra della gente (e a volte senza averla mai conosciuta né vista prima), ma anche dei movimenti, delle idee, degli avvenimenti, delle entità. Tutte cose che posseggono nomi propri, per quanto il nome proprio non designi affatto una persona o un soggetto. Designa invece un effetto, uno zig-zag, qualcosa che passa o succede tra altre due, come sotto una differenza di potenziale (…) Incontrare significa trovare, catturare, rubare, anche se non c'è un metodo per trovare, a parte una lunga preparazione.

Rubare è il contrario di plagiare, copiare, imitare o simulare. La cattura è sempre una doppia cattura, il furto un doppio furto, e questo produce non qualcosa di reciproco, ma un blocco asimmetrico, una evoluzione a-parallela, delle nozze, sempre 'fuori' e 'dentro'. Ecco, una conversazione sarebbe tutto questo” (G. Deleuze – C. Parnet, Conversazioni, Ombre corte, Verona, p.12). Proprio e nient'altro che questo: un “più” in quello che viene avvertito inizialmente come “meno”.