Sul perduto
Ubaldo Fadini

31.07.2021

Esperienza e povertà (1933) è uno di quei testi brevi, fulminanti, di Walter Benjamin che non smette d'incuriosirmi e di stimolare nuove riflessioni. Forse aiuta in questo anche una qualche partecipazione alle attività di un pensare rapidissimo che trova modo di materializzarsi nelle modalità più imprevedibili e fantasiose.

Si prendano le prime righe: ci dicono che un tipo di esperienza è ormai perduto, in quanto non si danno più quei tempi in cui si sapeva senza incertezze cosa fossero le esperienze, vale a dire i contenuti del vivere, le credenze, le regole, le abitudini che dagli anziani si trasmettevano ai giovani. Il critico berlinese sottolinea come le “quotazioni dell'esperienza” siano appunto precipitate soprattutto per quella generazione che ha realizzato nella guerra di trincea una delle “più mostruose esperienze della storia mondiale”. Una generazione che si è confrontata con una contingenza orribile, particolarmente crudele, ed è tornata ammutolita dalle trincee, impoverita sul piano delle esperienze effettivamente comunicabili visto che “mai esperienze sono state smentite più a fondo di quelle strategiche attraverso la guerra di posizione...”.

Già a questo punto scatta il rinvio, quasi in automatico, al posizionamento tutt'altro che eccentrico a cui siamo stati costretti dall'imprevisto pandemico, in grado di ridimensionare drasticamente tutte quelle “nostre” strategie che ordinavano il quotidiano indirizzandolo nel senso del raggiungimento dell'obiettivo del consumo continuativo. Ci siamo così ritrovati in una condizione di disattivazione dei nostri abiti mentali, delle pratiche ordinate/misurate di vita, di buona parte di un corredo di abitudini e di ovvietà a cui si attribuiva il compito di sostenerci strategicamente. Meglio: una dinamica di scomposizione che specifica diversamente dal consueto – com'è di fatto sempre avvenuto nella vicenda umana complessiva, nella cosiddetta “storia dell'umanità” – il nostro tentativo di attestarci nel presente, all'interno proprio di una contingenza difficile.

L'attenzione va ora rivolta alla sfera corporea, a un corpo separato (reso dunque “minuto e fragile”) dal suo stesso “spazio corporeo” (Leibraum), deprivato cioè – così traduco/tradisco – delle sue risorse di eterotopicità, di possibilità di posizioni differenti: vale così pure per noi, nella situazione che stiamo vivendo, e Benjamin ne parla indicandolo come collocato, semplice “cosa”, all'interno di un “campo di forze”, ridotto a mero materiale per la produzione di merci o per la distruzione di queste (anche sotto veste di “lavoro salariato”) attraverso la guerra.

Come riconsiderare tale “spazio corporeo”? Qui penso a Ferruccio Masini e alla sua proposta di traduzione di una formula quale “spazio radicalmente, assolutamente immaginativo”, che si ritrova in Benjamin, come “spazio immaginale assoluto”, riferibile proprio allo “spazio corporeo”, separato quindi dal corpo, dai suoi potenziali di relazione, di corrispondenza e pure di significato mimetico. E' possibile descrivere uno spazio che trova il suo più adeguato disegno nel fondo di una trincea, nelle situazioni di una eccezione liquidatrice paradossalmente ininterrotta e senza scampo? Nelle pagine benjaminiane riaffiora prepotente una pregiudiziale di carattere materialista: lo “spazio immaginale” è quello dell'esperienza espropriata, reificata, disposta a comando (capitalistico).

Non si deve dimenticare comunque che l'immagine è sempre “idea corporis”, che rinvia quindi ad affezioni e al loro impatto di variazione nei confronti di ciò che si definisce come complesso affettivo, proprio in continuo cambiamento. Non si deve rimuoverlo nel momento in cui si cerca di riflettere sulle basi dell'indagine a proposito della povertà imprevista. Il critico berlinese getta lo sguardo in particolare su un'idea di sviluppo della tecnica che lo coglie come un processo che colpisce gli uomini, all'interno della società borghese, con un effetto di “miseria del tutto nuova”, il cui rovescio, l'altra faccia della medaglia, è costituito dall'“opprimente ricchezza di idee” rappresentata dalla “rivitalizzazione”, anzi: “galvanizzazione”, di “astrologia e sapienza Yoga, Christian science e chiromanzia, vegetarianismo e gnosi, scolastica e spiritismo”.

Molto altro, si potrebbe aggiungere, oggi, con il nostro “spazio corporeo” restituito anche tecnologicamente “a distanza”, nel momento in cui si cercano strade di individuazione che scorrono nel senso dell'approfondimento – spesso inconsapevole – della dipendenza ribadita del “nostro” io: ma si tratterrebbe di una fenomenologia incentrata più che altro sul bisogno di scosse emotive provocate dall'imprevedibile (contraddittoriamente restituito così alla funzione di stabilizzare ciò che pare compensare, ogni tanto e sempre relativamente, una mancanza).

Benjamin ama ricordare quei dipinti di Ensor che mostrano dei “borghesucci mascherati carnevalescamente” che “si rotolano imprevedibilmente per le vie”, individuando in questi “borghesucci” una soggettività contraddistinta dalla separazione della “sfera privata individuale” dallo sviluppo sociale delle forze produttive. Quanto più questa separazione si fa voragine, tanto più la soggettività – borghese – si maschera negli oggetti fantasmagoricamente “trasfigurati”, “stravolti”. E' successo qualcosa: l'esperienza presente non si collega più all' “intero patrimonio culturale” e simulare o comunque tentare di carpire con l'inganno una esperienza che abbia effettivamente valore produce soltanto un “guazzabuglio di stili e di Weltanschauungen”, così desolante e insopportabile da spingere qualche volta a confessare “senza disonore” la propria povertà.

Si sa che Benjamin apprezza alcune espressioni delle avanguardie “storiche” nel momento in cui si prendono di mira, per un loro “annientamento” di fatto “barbaro”, i resti/residui soggettivi del processo complessivo dell'alienazione, dell'espropriazione: si pensi appunto all' “uomo interiore”, alla “psiche”, all' “individuo” come prodotti di scoria dello “sviluppo” capitalistico. Tali prodotti vanno smaltiti e quindi ulteriormente smembrati ed è pure in questo senso che l'attenzione si sposta sull' “azione”, su ciò che si può dispiegare proprio nel senso della più accentuata rottura, trasformazione radicale (rivoluzionaria).

Cosa riprendere allora delle formulazioni benjaminiane, per tentarne oggi un utilizzo parziale, ovviamente un po' fuori luogo? A me interessa il riscontro odierno della separazione del corpo dal suo spazio, ridotto a “spazio immaginale”, che stimola a portare ancora più avanti il compito “materialista” e “politico” di “ripartire” criticamente gli stessi resti soggettivi, vale a dire appunto “l'uomo interiore”, la “psiche”, l' “individuo”.

Per fare ciò, va realizzato un processo di scomposizione/disattivazione da svolgersi nello “spazio radicalmente, assolutamente immaginativo”, all'interno del “mondo dell'attualità universale e integrale”, che “non può più essere misurato contemplativamente” nel suo manifestarsi: tale spazio diviene – proprio nel processo di investimento duramente critico – spazio corporeo in grado, cioè potenzialmente, di riassorbire la physis che “collettivamente” si organizza nella tecnica, in ciò che qui è da intendersi come parte dell' “innervazione fisica del collettivo”, come espressione anche materialisticamente “politica” della metamorfosi antropologica in atto.

Piccola parentesi “personale”: è a partire anche da questi stimoli che ho “lavorato” a modo mio l'antropologia filosofica moderna, quell'attenzione all'azione, alla determinazione ad agire, che la coglie come complesso di potenziali trasformativi – e pure come pratica di dismissione progressiva delle forme, degli abiti disegnati – espressiva degli intrecci del corpo vivente della forza-lavoro contemporanea con le articolazioni del marxiano “capitale fisso” (il “sistema della macchine” oggi sempre più miniaturizzato).

Molto altro dovrei aggiungere sul momento dello “smontaggio”... ma mi interessa ora, per concludere, accennare nuovamente alla questione del perché Masini proponga “spazio immaginale assoluto” invece di “spazio radicalmente immaginativo”. A me sembra che lo faccia – anche e comunque non soltanto... – per sottolineare come tale spazio sia generato da una particolare modalità dell'esperienza, dall'ebbrezza, dall'uscire fuori di sé (o dal restare in sé senza la compagnia poco stravagante dell' “io”): è così inteso che la si può cogliere, tale singolare concretezza “immaginale”, come quello spazio intermedio tra ciò che si presenta come il sensibile e l'intelligibile, che permette di far filare tutto via, sulle strade, dovunque e rischiosamente, al di là degli stati dell'eccezione come regola del “nostro” vivere, di reclamata e infine imposta conformazione, che si vuole conclusiva, alla legge dominante.