Sul “disfunzionale” funzionante: il virus parassita
Orsola Rignani

18.06.2021

Il virus, parassita obbligato, dai primi mesi del 2020 è diventato il “rumore di fondo” delle nostre esistenze, ossia, per dirlo con Michel Serres, l’interferenza, l’elemento di disturbo, l’interruzione, e insieme anche l’avvio, comunque sia, di un cambiamento. Cosa che - è quasi superfluo osservarlo - ha suscitato ricorsive e talora ossessive rassegne degli slittamenti/estensioni del suo riconoscimento/utilizzo (come modello esplicativo) dal vivente all’inerte, dall’ambito biologico-medico a quello informatico, ai processi della globalizzazione culturale, all’impatto dell’umano sul pianeta, al sovvertimento degli ecosistemi, ai rischi pandemici, all’incremento demografico, nonché la sua aggettivazione a espressione di diffusione rapida e capillare etc.

Oltre i “luoghi comuni”, l’approccio e l’atteggiamento diffuso nei suoi confronti è stato ad ogni modo quello del timore e dell’implementazione di strategie atte a contenerlo/estinguerlo. Ma, potrebbe essere diversamente? Se di primo acchito, a caldo, la risposta è negativa, tuttavia si potrebbe provare a raccogliere la sfida dell’oltrepassamento della contingenza e del punto di vista, ponendo ascolto a chi, come Michel Serres, di fatto in una -non ricercata- assonanza con gli orientamenti della prospettiva postumanista, si è interrogato sull’alterità, sulla diversità, sulla difformità, sull’anomalia, additandone una (ri)declinazione secondo una dinamica di superamento dell’interpretazione immediata da un solo punto di vista; cioè secondo uno sforzo di ricomprensione per generalizzazione dei punti di vista (eventualmente anche secondo un’ottica retrospettiva o nel lungo termine) in una sintesi feconda di novità, che non intende annullare l’elemento particolare ma completarlo.

Per cui ciò che, “guardato” nel qui e ora da un punto di vista (sembra) non funziona(re), nella sintesi (fa) funziona(re). E questo è appunto il caso del parassita e quindi del virus che è un parassita obbligato (ma nella prospettiva serresiana è anche il caso degli “zoppi”, dei fragili, dei disagiati etc.). Se pertanto è indubbio, annota Serres, che discontinuità, rottura di equilibrio, quali nella fattispecie quelle indotte dal morbo/virus/parassita, sono faticose, spiazzanti, traumatizzanti, oltre che tragiche nelle ricadute, si può comunque tentare di individuarne pure il potenziale di cambiamento e di trasformazione: incontri, disequilibri e contaminazioni sono il più delle volte fonti di novità, mentre incontaminato, equilibrio, continuità segnano ripetizione e sterilità.

A questo punto risulta difficile resistere alla tentazione di richiamare qui le suggestioni serresiane, in certo modo convergenti con quelle postumaniste, sul parassita come ospite abusivo, dalla portata però, in senso più ampio, ontologico-etica, come relazione universale, condizione che precede lo scambio e la reciprocità, presupposto di ogni esistenza. Nel parassitismo Serres riconosce infatti il legame basilare tra due cose, nel senso non semplicemente che esso è una relazione elementare, ma che è un elemento della relazione (M. Serres, Le Parasite, Grasset, Paris 1980, p. 182); per cui la relazione sociale fondamentale è parassitaria.

Il rapporto parassitario, quindi, è originario poiché precede contratti e leggi, e tutti i nessi di scambio e reciprocità sono appunto trasformazioni di un parassitismo primitivo. Il parasite, in cui il prefisso para-, vicino a-, esprime il misurare, relazionalmente, una distanza da- (ivi, p. 144), è ontologicamente scarto all’equilibrio (ivi, p. 32) che appunto inaugura (nascita, invenzione etc.); operatore di relazione che fluidifica la separazione tra soggetto e oggetto facendone emergere la mutualità, la partnership, la “contrattualità” tesa alla simbiosi; così come, eticamente, è condizione di possibilità dello scambio e della reciprocità, non però solo per essere poi da questi ultimi soppiantato, quanto anche permanendo come catalizzatore e volano di dono gratuito, di gratuità, o magari almeno di simbiosi parassitaria.

In tutto questo è abbastanza evidente appunto l’assonanza con l’orizzonte postumanista, per il quale né l’umano né l’altro-dall’uomo possono essere pensati disgiuntivamente, in una dimensione virus free bensì inter-implicati in sinergie complesse, in dinamiche di permeabilità, di ibridazione, di infiltrazione, di infezione, di contaminazione, in cui l’“altro”, il “difforme”, il “patogeno”, il “disfunzionale” può (tornare a) (far) funzionare, ossia (può)emerge(re) come volano e catalizzatore di caratteri nuovi, possibilità, risorse morali per l’umano nel mondo e col mondo.

Paradossi? Se presi alla lettera, in un momento come questo in cui la pandemia da Covid-19 è ancora più o meno fuoco sotto la cenere, probabilmente lo sono; però, forse le suggestioni che si possono raccogliere da queste “voci” sono grosso modo due; interconnesse. Una è l’approccio della ricomprensione per generalizzazione dei punti di vista, che può aiutare a oltrepassare la contingenza epidemiologica, “riconsiderandone”, nel lungo periodo, la patogenicità.

L’altra, che per così dire è il corollario della precedente, è l’impulso generale all’uscita dall’idea separativa del diverso, del patogeno, del dissonante, del difforme e della cogenza della loro esorcizzazione, correzione, neutralizzazione. Secondo la considerazione che non è dato sapere a priori dove va l’“eccezione” e che comunque non è nemmeno lecito o sensato chiederselo, perché essa fa la propria strada che può comportarle una fortuna immediata e duratura oppure un temporaneo disconoscimento e una fortuna improvvisa in tempi e luoghi incerti oppure anche un oblio irreversibile; ma che comunque ciò che conta è il riconoscerla, e quindi il lasciare emergere la molteplicità, l’inventività, la varietà oltre il punto di vista.

Dunque, difesa, contenimento, ma anche per così dire avvio di un processo di riconoscimento/convivenza, perché forse tutto funziona come un virus e il “disfunzionale” (può far) funziona(re).