Sui doppi livelli dell’eccezione
Anna Migliorini

09.04.2022

Fa una certa impressione come, allo stesso tempo ed in modo apparentemente incoerente, lo stato d’eccezione – o emergenza – sia sulla bocca di molti e a molti altri sia sconosciuto in una misura altrettanto diffusa. Per quanto ciò possa essere illuminante, non è un problema di per sé, né per l’una né per l’altra attitudine e realtà. Anche se probabilmente il fatto che a molti il significato sia sconosciuto potrebbe valere come termometro possibile della consapevolezza del rapporto tra politica, diritto e libertà.

Non sarebbe un problema in generale, se non fosse che, sull’altro versante, il parlarne, a quel livello che molti definirebbero popolare e divulgativo, non riesce a produrre che polarizzazioni intorno al tema spauracchio della “dittatura” contemporanea. Non rendendo giustizia, nemmeno sotto l’ottica concettuale, ad un tema e a delle realtà estremamente compositi.

Uno dei motivi di interesse per il tema dell’eccezione, in campo genericamente interpretativo, è che essa è sia evento che provvedimento, tutto sotto uno stesso nome: stato di eccezione. Ricordiamo Carl Schmitt che diceva che “Sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione”, mostrando in modo diretto il rapporto complicato tra l’evento e la sua sanzione. Inoltre, semplificando, il diritto tendenzialmente non riesce a prevedere la casuistica esaustiva delle eccezioni possibili, poiché l’eccezione, in quanto tale, non è anticipabile o sussumibile integralmente.

La decisione sulla sussistenza dell’evento eccezionale è quindi sanzione necessariamente a posteriori operata da un’entità. Una volta sancita, l’eccezione è da arginare con lo stato d’eccezione, quindi da controbilanciare e annientare con uno o più provvedimenti. Ma ricordiamo già Walter Benjamin che (gli) dice che “Il principe, che ha la facoltà di decidere sullo stato d’eccezione, mostra alla prima occasione che decidere gli è quasi impossibile.” Per dire già in contesti apparentemente non sospetti – il Trauerspiel, il dramma barocco tedesco – tutto il pericolo insito nella considerazione del potere politico da un punto di vista soggettivo, individuale, cioè intrinsecamente a rischio di arbitrarietà. Il sovrano, dice Benjamin, è pur sempre, ed estremamente, una creatura.

Ma la doppiezza correlata all’eccezione non si ferma qui, e gli ultimi giorni/ultime settimane impongono una deriva specifica alla trattazione del tema – con tutto il rischio che l’argomento, nel culmine della sua attualità, invecchi anzitempo già mentre lo si stende. L’altro problema che sembra impossibile non rilevare, e che non è certo una novità nella storia ma lo è sì per i nostri anni e codici postali, è che molti argomenti o soggetti, di cui alcuni singolarmente hanno iniziato ad occuparsi in anni passati, ora siano così attuali e prossimi da far soffrire a parlarne anche in contesti di ricerca.

Da un lato, l’oggetto di ricerca scivola dalle mani mutando almeno parzialmente di forma, mostrando la differenza di passo, cioè la lentezza, dell’ambito analitico, riflessivo e critico. Dall’altro, il problema non è il dolore della realtà, che magari gli studi o i discorsi sull’eccezione potrebbero aiutare a leggere, quanto più che altro una sorta di livello aggiunto, un imbarazzo e una vicinanza inconfortevole tra chi studia e ciò che è oggetto di studio.

Non solo, spunta anche una sorta di sacralità del tema – il che equivale anche a dire che la sensazione di disagio è estremamente multiforme – il quale non si lascia più subordinare ad oggetto e si sente stridere di più quanto più teoria e attualità si avvicinano l’un l’altra, anche secondo elementi letteralmente geografici. Quanto era più facile parlare del Terzo Reich, o pure di Guantanamo o Abu Ghraib, o anche di Siria e Afghanistan?

Diventa quindi difficile perdersi in analisi fini, o militanti, o agguerrite, da tavoli e sedie che non sono più così saldi e sicuri, attualmente o prospetticamente; diventa difficile trattare con freddezza ciò che è ora infine troppo vicino, impossibile a tratti rimetterlo alla giusta distanza per inquadrarlo, complicato sfuggire ad un certo senso di vergogna e invadenza, impossibile trattenerlo come mero oggetto.

In questo incrocio, Benjamin pare dirci – come spesso – molte cose ancora illuminanti. Certo, che il momento del pericolo giace con quello della conoscibilità, che le condizioni di negatività sono potenzialmente condizioni di conoscibilità, che il rovesciamento positivo si situa in una situazione di aggravamento delle condizioni oggettive. Accanto a questi principi generali disseminati nel suo pensiero e fondamentali per tutto l’impianto teoretico, ci dice anche però che esiste un compito. Se esso consiste nel “suscitare il vero stato d’eccezione”, allora la fase precedente alla realizzazione del compito corrisponde all’indagine, identificazione e disattivazione di tutte le eccezioni apparentemente tali attraverso il mezzo della critica.

Diventa quindi maggiormente necessario difendere il valore dei lunghi détour teorici, anche davanti all’ansia di un tempo che precipita, per decidere contemporaneamente che la teoria vale in sé, ché auspicabilmente è modellizzabile in un’ottica trans-storica, che l’inutilità degli studi superflui in momenti di urgenza non è che apparente e moralistica, e che la concettualità sta lì, ferma, ad offrire l’aggancio per la critica, che permette muretti da cui sporgersi per guardare il reale e decidere cosa farne. Siano essi teatri della guerra e arte (nel senso di Sarajevo), marce per la pace (antagoniste o complementari) o barricate/molotov.