Sui Dialoghi con l'amico insonne di Ubaldo Fadini
Stefano Righetti

14.10.2023

Entro quali margini il discorso filosofico può oggi ritagliarsi uno spazio di autonomia, senza fare di questo una qualche esclusività accademica e, in definitiva, una forma – per quanto presuntuosamente elitaria – di esclusione? Dov’è possibile (e soprattutto come) ridare al pensiero l’interrogazione sui suoi margini, su ciò che ne mette più facilmente a rischio la sicurezza, ma dove soltanto gli è possibile rinnovare il proprio compito, accogliendo il rischio dello smarrimento che il confronto comporta? E, soprattutto, in quale forma potrà comunicarsi questa esperienza perché ne conservi vivo il travaglio e perfino il conflitto che il suo esercizio comporta?

È quello che questo libro di Ubaldo Fadini dal titolo apparentemente giocoso (Dialoghi con l’amico insonne. La perdita del peggio, Editrice Clinamen) mette argutamente in scena, rovesciando i paradigmi del saggio accademico; affrontando il rischio con cui la contingenza apre le maglie del pensiero per fargli accogliere (o subirne) le sollecitazioni, e riaffermando in ciò anche l’unica possibilità che il pensiero così esercitato (e messo-in-scena) può ancora garantire e rappresentare: la possibilità di dire un senso, fosse pure la sua mancanza o il suo tragicomico venir meno (“dalla mia finestra, da qualche parte in quella città, scorgo Schmidt con una busta della spesa da supermercato – ma questo non lo dirò all’amico...” p. 19).

Nell’affrontare questo compito, questo libro che si diverte a tracciare pericolosi itinerari nelle zone più rischiose (“A volte, per passare il tempo, ritorniamo ai cari e vecchi ‘luoghi comuni’, forse con un po’ di malinconia”, Ibid.), non è soltanto uno dei più seri che Ubaldo Fadini abbia scritto, ma probabilmente anche uno dei più coraggiosi. Sia per il tema (quello appunto di indagare il rapporto possibile tra quotidiano e pensiero, al di là della distanza di sicurezza che il pensiero ha finito per erigere nei confronti di tutto ciò che non sembra meritare la sua attenzione, soprattutto perché ne mette ironicamente in discussione la certezza); e sia per la modalità con cui questa riflessione viene registrata e si fa narrazione (altro genere inviso al pensiero “puro”), quella appunto della forma diaristica delle pagine social, dove Fadini ha ridato forma a un modello che ben conosce e ha frequentato, da Nietzsche a Benjamin a Adorno, passando per Celan.

Partendo da un presupposto forse indicibile (l’esercizio del pensiero corre oggi il suo rischio di banalizzazione forse maggiore) la riflessione sul presente, consumate una volta per tutte le autonomie dell’autentico, è allora costretta ad affrontare la percezione della propria solitudine di fronte a tutto ciò che sembra potenzialmente negare (poiché non la richiede, l’ha a priori abolita) ogni riflessione. Ma in questo deserto la prima negazione, il pensiero deve oggi infliggersela da sé: si chiama “autoreferenzialità”: “un blaterare incessante a proposito di felicità e infelicità (mi viene qui in mente soltanto Benjamin e l’immagine di uno spavento qualsiasi frenato quando ci si vede allo specchio... qualcosa del genere, insomma). Ma sono immagini ‘remote’ che rimuovono forse il disagio provato davanti all’ennesima riproposizione dell’idea che il presente ‘vissuto’ sia comunque quello più importante, nel ‘bene’, difficilmente rappresentabile oggi, e nel ‘male’, individuale e collettivo” (p.18).

Ma se il reale confonde, il pensiero deve accettare il rischio di risalire la confusione diventandone parte. Dunque, disporsi alla molteplicità più che all’unità del senso: ingannare il caos doppiando la propria voce e la propria identità. Perché l’identità impone alla filosofia la falsa sicurezza della camicia di contenimento. È il male attuale, quello di avere ormai opposto irrimediabilmente (forse) il “mio” al “collettivo”, di aver dissolto la possibilità di quell’essere singolare plurale di cui parla Deleuze, altro autore caro, insieme a Benjamin, al Fadini più intimo (stavo per dire meno-accademico). Ma il filosofo è invece deleuzianamente mai del tutto riducibile a un sé e, in quanto tale, anche “il mio è filosoficamente spezzato in ‘m/io’, e solo in questa duplicità e complicazione di sé il m/io può allora tornare al pensiero del ‘nostro’” (p. 18). Solo in questo senso pensare può significare non provare a imporre “il mio modo di sentire/vedere; nessuna ansia di prestazione ma “ansia di attenzione”, quella che può servire a stringere ‘mani vere’ (come ricorda il poeta degli anni ‘scortecciati dalla malinconia’ [Celan, ndr]” (Ibid.).

Questo sdoppiamento, che il pensiero richiede per essere così esercitato ed esperito, è allora figurato da Fadini nel personaggio del doppio a cui il libro è dedicato. Il m/io deve dunque farsi amico immaginario e la sua immaginazione vicinanza e differenza insieme: “Le nottate insonni mi consentono perlomeno di chiacchierare con il mio amico (più insonne di me, se possibile... e molto meno pigro” p. 19).

Sdoppiato così il soggetto del pensiero, il rapporto tra autore e amico insonne può allora prendere la forma del dialogo e del confronto, più spesso del conforto e (per l’autore) del rifugio (“Stamani, purtroppo di corsa, ho visto delle belle persone e poi di nuovo in pista, guidando con l’amico ‘insonne’, muovendomi contro-tempo, controvento, prendendo in faccia di tutto e di più. Meno male che c’era l’amico a farmi compagnia, a scherzare sul by-pass mentale ormai indispensabile mentre il cuore continua stentatamente a battere. ‘Metaphorein’ … mi dice, scherzando, ma verso dove e per chi?” p. 47).

Ma lo scherzo può essere a volte anche severo: “Mi fa l’elogio del rigorismo in ambito ‘morale’. Capisco così che si tratta di una nottata aspra. Scherza ovviamente ma sottolinea che considera tutti coloro che in qualche modo provano soddisfazione del proprio ‘io’ in termini criminalmente complici” (p. 104).

Lo sdoppiamento ha  l’effetto di moltiplicare il pensiero, di mantenerlo nell’esercizio insonne della veglia. Impedisce la tregua, soprattutto là dove il pensiero rimane senza uscita e senza soluzione, sempre necessariamente in atto (“Riesco finalmente quasi ad addormentarmi dopo una bella lettura … e sento l’arrivo di un messaggio sul cellulare. È l’amico ‘insonne’. Chiamo, quasi alle prime luci dell’alba, e mi dice tutto d’un colpo che ha ragione Adorno (anche se poi siamo dei ‘krahliani’ da tempi memorabili) quando sostiene più o meno che la vita ‘vera’ è soprattutto ‘falsa’”, p. 81).

Rincorrere l’autenticità vuol dire votarsi al suo contrario; è la falsità del doppio a poter dire il vero, a raccoglierlo dal fondo della propria in-certezza, e a farlo brillare al di sopra di ogni apparenza nell’immagine-immaginaria che il m/io è in grado di vedere e di dire, non più solo di pensare.

Al contrario, lasciato nella convinzione della sua (presunta) identità, il pensiero deve mostrarsi per forza di cose “nella sconfortante mediocrità dei prodotti teorici come strumenti di mercato ed espressioni ‘sapienti’ del capitalismo all’opera” (p. 46). Solo raddoppiando la propria voce il pensiero può allontanarne la vacuità, fuoriuscirne con un di più di consapevolezza, ridurre il proprio sé alla sua ironica misura, e ritrovare in questo modo (apparentemente minore) anche il gioco vivo del suo esercizio, quello in grado di risvegliarlo di colpo dal mio al noi, e da cui il reale stesso deve a sua volta affiorare, in ogni momento, nella sua ineluttabile verità e, perfino, violenza – farsi indicare per ciò che è: il limite negativo a cui il pensiero non può smettere di pensare, pena la perdita di sé, la chiusura nella sua presunta certezza oppure, al contrario, la sua confusione con il vuoto: “Non leggo più regolarmente i quotidiani (salvo quello a cui sono affezionato e che ogni tanto addirittura mi ospita). Un po’ è colpa della lettura di Karl Kraus, di tanti anni fa e che è rimasta scolpita nella mente; poi anche della scorpacciata di teorie critiche della comunicazione. Mi capita però di prendere per abitudine, il venerdì, il quotidiano con l’inserto. Di solito lo faccio al supermercato quando mi fermo per qualche minuto davanti al piccolo reparto di giornali e libri (giornali da cui arriva, per via della prima pagina esposta, il tanfo padronale” (p. 111).