Sui “campi di affettività”. Osservazioni
Ubaldo Fadini

26.02.2023

Tim Ingold indicò non troppo tempo fa come gli esseri umani siano “mutualmente costituiti” e a ciò vorrei affiancare l'idea dell'imperfezione – noi! – che pur funziona sempre provvisoriamente vista oltretutto quella condizione di partenza che rende appunto revocabili gli effetti del funzionare su una base di vulnerabilità, di complicata esposizione al mondo, della nostra particolare Weltoffenheit.

In questa prospettiva ha senz'altro senso un rinvio a tradizioni di pensiero filosofico che indicano un piano considerato certo di aggancio per lo sviluppo dell'indagine, vale a dire quello della natura umana. A me viene ovviamente in mente l'antropologia filosofica del Novecento, che appare essere emblematica di un approccio che tenta di fare infine i conti, anche nelle sue diverse articolazioni, con ciò che descrive la realtà storica, politica, sociale, economica del secolo passato (ma anche dei primi decenni del “nuovo”...) nei termini propri della rilevazione di una crisi acuta dell' “individuo storico”, per dirla con quell'Adorno particolarmente attento alle raffigurazioni dell'elemento umano che lo restituiscono nelle sue deformazioni dovute alla forma specifica della società capitalista.
La questione era (è ancora...) quella di arrestare la “crisi storica dell'individuo”, nel passaggio da una “catastrofe” all' “altra”, e in ambito filosofico non radicalmente critico è spesso affiorata l'idea di trovarne uno stop possibile, un “fermo” non scontato, nella natura umana, nel “singolo essere biologico”. Non accontentandosi di una deriva per così dire piattamente ontologica, l'antropologia filosofica moderna tenta – nella direzione accennata – di realizzare una sorta di catalogo delle caratteristiche della natura umana in grado di dar “corpo” a un progetto e modello di identità consolidato in maniera non eccessivamente semplificata.

Non mi interessa qui presentare ancora una volta i modi concettuali derivanti da tale specifico confronto con una vita complessivamente “sbagliata”, anche se ricordo sommariamente un passo kafkiano, da tenersi comunque ben presente, nel quale si afferma che in un mondo pieno di menzogne non si può pensare di cavarsela contrapponendo una “verità” ad una “menzogna” in quanto sarebbe invece da affermare un mondo differente, il mondo della verità; preferisco tentare una sorta di paradossale dissociazione dal “modello” sopra richiamato pur ripartendo anch'io dal livello dei corpi per arrivare in ogni caso al motivo del mutamento delle situazioni, vero e proprio contrassegno dello sforzo “umano troppo umano” di prolungare l'esistenza sapendo che così si corre pure il rischio di allungare la pena, coltivando/sviluppando infine, da parte di qualcuno, anche il tema dell'annientamento, dell'azzeramento.

Lo voglio prendere di punta il livello dei corpi, luogo “scenico” per eccellenza, per cercare in esso l'elemento di qualificazione o meno del mutamento delle situazioni, quel punto d'inizio e/o di arrivo che restituisce un perché delle cattive/pessime particolarità attraverso le quali si riproduce un tutto appunto “sbagliato”, a cui si rinvia incessantemente lo “sbaraglio” insito negli interessi “antagonistici” di soggetti consegnati unicamente a “cattive maniere”, ai tic della personalità che appare “normale”, di ciò che “imbratta” in definitiva il concetto stesso di umanità.

Fin qui la terminologia da me adottata è tipicamente “critica”, in senso adorniano, ma d'ora in avanti voglio cambiare registro proprio per affrontare il luogo “scenico” indicato. Resto però legato appunto al piano della corporeità per trovarvi elementi di resistenza possibile all' “insensatezza organizzata”, alla “costruzione dell'insensato”, alla “storia” del susseguirsi di catastrofi che hanno capovolto l'individuo, mandandolo a gambe all'aria, finendo per azzerarlo. Di ciò si ha, si può fare paradossale esperienza e l'arte riesce a volte, molto raramente a dire il vero, a raffigurare la posizione individuale nella sua basilarità riconoscendola imprigionata, incapace di perseguire un minimo di autonomia oltretutto inattendibile in questo mondo.

Come scrive il teorico francofortese, è possibile evidenziare, mettere in scena, la fallacia dell'immediatezza individuale, la galera del rigidamente condizionato, ma ciò che risulta decisamente troppo complicato è riuscire a centrare il carattere transitorio del singolo, inteso come categoria storica, nel suo eventuale contrapporsi, relazionarsi appunto alla “catastrofe permanente”, alla dominante di un apparente decorso che vale comunque come indicazione del fatto che non si dà conciliazione effettiva del/nel “nostro” tempo individuale e collettivo.

Se risulta allora praticamente impossibile, allo stato dei fatti, superare la presa d'atto, quando episodicamente accade, del carattere “spezzato” della soggettività, puntando comunque a cogliere la sensibilità di tale condizione, ecco allora che la filosofia – in relazione a quelle pratiche artistiche che riescono in ciò, a rendere appunto “sensibile” – può rivendicare uno spazio di agibilità, altrimenti considerato da più parti come irrealizzabile, in relazione alla sua specifica e per molti intollerabile abilità di risposta nei confronti del moltiplicarsi dei segnali di contraddittorietà propri di una realtà scissa in più componenti alienate che non vengono così collegate tra di loro e al mondo degli oggetti, a tutto quello che esprime la logica di funzionamento delle nostre società.

Certo si tratta di “una” filosofia singolare, che muove risoluta e consapevole della propria minorità verso la “non-verità” di un carattere basilare dell'essere che appare in un'esperienza individuale di fatto “ristretta e casuale”. È tale ristrettezza e casualità che va presa di petto e in questo senso ritorno su quel “classico” della filosofia moderna che per primo è riuscito ad articolare a proposito dell'umano una analisi puntuale delle modalità di un relazionarsi non segnato dal prevalere di un atteggiamento solipsistico, non portato cioè ad esaltare unicamente le pratiche di una conservazione in vita, di una esperienza da s/qualificarsi come “selvaggia”, fondata sulla riduzione dell'altro a mero strumento, a mezzo di riproduzione di una identità “brutta”. Il rinvio è a Spinoza, l'indagatore più risoluto nell'affrontare modernamente il collocarsi dell'umano in campi di affettività costitutivamente mossi, inquieti, che spingono ancora di più ad abbandonare oggi, su un piano pure concettuale, gli stereotipi della differenza ontologica e ad apprezzare convenientemente i modi della mediazione, di una dinamica di individuazione che non può essere arrestata (e ciò vale soprattutto per le determinazioni brutali della liquidazione dell'individuo che abbiamo sotto gli occhi, forse...).

Si tratta in effetti di disambientare sempre di più l'individuo, al di là di quelle sue apparenti variazioni dovute a modificazioni dei suoi contesti di esistenza pregiudicate dall'obiettivo primario del funzionamento del “nostro” mondo, quello della massimizzazione dei profitti per qualcuno (per pochissimi). Spinoza è appunto qui compreso come il primo filosofo del disambientamento, laddove sottolinea il carattere transitivo dell'affetto, non da considerarsi semplicemente come indicativo/rappresentativo, il suo relazionarsi alla affezione come modo della sostanza che accade nel mondo, come ciò che risulta dal rapporto effettuale con altri modi.

Per dirla con Deleuze che legge/commenta il filosofo olandese, le affezioni sono da intendere come “immagini o tracce corporee” le cui idee implicano insieme la natura del corpo modificato e quella del corpo esteriore, che individua la determinazione come effetto di trasformazione del corpo affetto. Le affezioni-immagini o idee (nel senso che la mente contempla/immagina i corpi nel loro rapporto “presente”) costituiscono infine uno stato determinato del corpo e della mente modificati dal corpo esteriore, uno stato che può risultare di minore o maggiore “perfezione” rispetto alla stato precedente all'affezione.

Non è qui il caso di seguire nei dettagli l'articolazione della riflessione spinoziana ma mi piace segnalare la possibilità di prestare particolare attenzione proprio alle transizioni, alle durate, ai passaggi “vissuti” che si concretizzano dalle perfezioni minori a quelle maggiori e viceversa. Ê uno sguardo siffatto a favorire una attività di ricerca rivolta verso una molteplicità di movimenti, transiti, visioni che restituiscono a mio modo di vedere una raffigurazione dell'umano come essere di relazione, di parte, di “fantasia” come si arriverà a sostenere in qualche punta critica della filosofia novecentesca.

Un motivo, quest'ultimo, che va sviluppato nel senso di mettere a valore, nonostante tutto..., la combinazione di percorsi reali e immaginari, di “traiettorie storico-mondiali” o “viaggi” con pratiche parziali, con tragitti e divenire, con modi di mobilitazione (non di guerra) da cui si possa nuovamente “prendere il volo” piuttosto “che restare sepolti nella terra”, come scrive ancora Deleuze; si possa cioè, per dirla diversamente e in termini a me cari, lasciarsi trasportare da un “vento volatore” (Gianni Celati) capace di “pulire” sia pure sempre parzialmente tragitti, divenire, affetti dai troppo “furbi”. Relazioni, pratiche per un mondo “defurbizzato”, da “defurbizzare”, come affermava Cesare Zavattini, ricordato proprio da Celati.