13.03.2021
Su Ferruccio Masini
Una conversazione con Ubaldo Fadini
Melania Moltelo

La conversazione muove da una irriducibile e “comune estraneità”, per dirla con Blanchot; l’”amicizia” è lo spazio dove ci si muove come ombre, spogliate della familiarità e disarmate della capacità di dire “Io”, che trattengono nella bocca due ultimi “bocconi di silenzio”. Forse in una bocca sola, in un solo appello a cadere (“ma l’Io non è solo, passa al noi, e questa caduta a due unisce” – M. Blanchot).

Il tentativo di tracciare un “profilo” di Ferruccio Masini si scontra anch’esso con un “fallimento” di fronte all’autorità della definizione. Tu scrivi, in una postfazione a Le stanze del labirinto, che si ha a che fare con un corpo vivente, quello di Masini, “di cui si percepisce il formicolio delle potenze che lo compongono, che lo agitano variandolo”. Un corpo mai fermo e comunque “paziente”, che si svincola dall’organizzazione come giudizio della vita comandata sulla vita.

Nell’incapacità di “incontrare” Masini scegliendo una direzione piuttosto che un’altra, lasciando disponibili tutte le porte d’accesso a un pensiero costitutivamente stratificato e labirintico, si rivela comunque l’urgenza di “spolverare” questo nome da qualsiasi forma di memoria intristita e/o dalle celebrazioni di rito. Per riprendere un motivo di Elias Canetti: forse un “lutto più casto” può aiutarci a preservare qualcosa di più. Può, per tornare a Masini, “rovesciare quel triste primato della morte sulla vita”.

Ecco: la vita! La vita, con le sue eccedenze e gli imprevisti dell’avventura, mi pare ciò a cui si fa sempre ritorno attraversando il materiale eclettico e dispersivo della produzione di Masini. E indico, indicando la vita, proprio ciò che non si può indicare: “l’impossibile che siamo e in cui consistiamo”. Masini ha detto molto di quello che c’è da (non) dire dell’avventura, attorcigliandola in un discorso “insensato”: si tratta, anche in questo caso, di una rinuncia, quella a individuarne il principio (“non basta salire su un treno e salutare gli amici”). Perché l’avventura è l’evento sottratto al punto soggettivo e temporale; l’allentamento dell’Io di un certo surrealismo che provoca la rivolta dell’impenetrabile del/nel quotidiano smantellando tutte le fissazioni logico-razionali del reale. L’Io alla deriva.

U. F. Riprendo una mia recensione agli Aforismi di Marburgo, pubblicata parecchi anni fa su “Spirali” (1983), per sottolineare come la costante paradossale dell'avventura masiniana (ma dovrei subito correggermi: l'avventura non ha nomi in grado di s/qualificarla) sia da rinvenire nella ricerca timida dell'incontro, una ricerca nella quale si manifesta comunque una volontà, quella di venirne affettivamente segnati. E nell'avventura si mette in gioco il possesso stesso della propria vita. È un rischio che si corre, che ci fa muovere e che trasmette la speranza ultima e ostinata di passarla – la nostra esistenza e ciò che di essa non sappiamo – ad altro, ad altre esistenze.

È qui che si può cogliere, a mio modo di vedere, la singolare immagine che Masini fornisce a proposito della morte, da non considerarsi affatto come una fine o un inizio, che si trova nell'aforisma che conclude (provvisoriamente...) la raccolta da cui ho preso spunto per queste righe: “Cos'è questa furia di vita che irrompe come fiumana attraverso la morte? Infrangere il sepolcro: la cosa più prodigiosa è che Cristo infranga il sepolcro”. Si può qui senza dubbio gettare un ponte in direzione di quei territori della cultura di lingua tedesca che Masini non ha mai smesso di frequentare (ricordo come negli ultimi mesi mi parlasse, tra l'altro, di Botho Strauss), soprattutto laddove i fantasmi della guerra, gli spettri del venir meno di qualcosa di essenziale (almeno così considerato: una volta, come nelle favole...), in un qualche modo si rendono ancora avvertibili.

Ma ancora di più mi sembra opportuno richiamare, in tale ottica e per poter dire diversamente, l'attenzione per l'opera complessiva di Elias Canetti e la sua critica del sopravvivere “selvaggio”, a scapito degli altri. Mi è capitato, un po' di anni fa, di entrare nell'archivio fiorentino dove si conservano molte carte di Masini: la spinta a farlo mi fu data dal rinvenire nel sito on line il riferimento a un testo appunto su Canetti. Riuscii a trovarlo e l'emozione fu fortissima quando ebbi tra le mani un mio vecchio articolo sottolineato proprio da lui, a testimonianza dell'affetto e della generosità incredibile (oggi inconcepibile) di un grande “maestro” (si sarebbe messo a ridere a sentirmi dire/scrivere così...) per un ragazzino un po' stentato e abbastanza sciocco (com'era “naturale” che lo fossi e il “naturale” vale pure oggi).

Un altro aspetto di rilievo è il tentativo di tirare fuori un “linguaggio della resistenza”, lavorando con le smagliature delle narrazioni dominanti. Raschiando il testo fino a lasciare che resista, in un gioco di parole, ciò che ancora resiste. Alla sostanzialità dell’Io, come garante del possesso e come luogo della stabilità, subentrano una “grammatica dello squilibrio”, una lunga fuga dal “centro”. Questa posizione decentrata scuote il devoto, in un racconto di Franz Kafka, a cui le cose sembrano ritirarsi nello stesso suo sforzo di nominarle. È la “timidezza” di tutta la scrittura kafkiana che si esprime a tentoni in quell’assillo di volere scrutare le cose nella loro “felice e tranquilla esistenza”.

L’univocità del riferimento semantico, come fame d’appropriazione simbolica e vizio d’origine dell’intelletto, si slabbra in una metamorfosi dei rimandi. “Scrivere è digiunare” – direbbero Deleuze e Guattari, è abbandonarsi a un’altra miseria, a quel “mal di mare in terraferma” provocato dallo sballottamento di un’insicurezza del possesso. “Non la parola, ma il suo naufragio”. Se la ragione può più o meno lenire la sofferenza coi suoi mezzi, l’espressione della sofferenza si dà poeticamente, come nell’opera di Paul Celan, con le “convulsioni” dell’espressione (“e la lingua ci balbettò dolcezza…/ è così che balbetta, ancora sempre” – P. Celan). La poesia che deve fare i conti con l’orrore non può consolidare i pilastri della cultura facendo la parodia dell’arte come riformatorio morale che si bea dell’ideale di umanità, ma deve avventurarsi alla scoperta dei gradi più “semplici” dell’esistenza fino a dare parola alla pietra.

L’affrontamento del disumano si realizza “per amore dell’umano”; così la parola resiste solo quando, rinunciando alla semplificazione del messaggio, dice il non-detto dell’ingiustizia. In questa camminata alla Thomas Bernhard, sul filo barcollante della follia, l’umanità si scontra con la sua impotenza e con l’impotenza del suo linguaggio: larve di uomini resistono “contro ciò che è insopportabile e orribile”, ormai stanchi di tutto e mai stanchi di lavorare all’esaurimento delle strategie di dominio testuale ed extra-testuale.

U. F. Certamente c'è un moto di protesta in coloro che cercano di resistere in un qualche modo al dilagare del disumano. È anche, con quel “moto”, un dire “inumano”, nel senso dell'affiorare di qualcosa che ci attraversa e a cui affidiamo la possibilità di disporci sperimentalmente rispetto alle linee di divenire della terra. A tale percorrere attribuiamo infatti la possibilità di riuscire minimamente a vivere una vita sconosciuta, quella che rompe ogni identità rigidamente prefigurata/prefissata (si può qui ricordare la critica masiniana all'identità “piena”, auto-fondata in una qualche maniera, come modulo di base dell'umanesimo classico-borghese, che permane tale, perché riferimento essenziale per primaria negatività anche nelle contestazioni di matrice romantica).

Aggiungerei che il mistero dell'avventura è che non con-viene mai perché porta con sé i semi del molteplice, ciò che potrà fiorire in mondi differenti da quello che riteniamo “nostro”, stimolando così nuovi esercizi di pensiero, di esistenza. Abbiamo però a che fare, nel presente, con materiali inevitabilmente frammentari, con dei frantumi, con mille miscugli: senza rinviare, in quest'ottica, agli autori che sappiamo essere stati cari a Masini, mi piace qui ricordare come la sua straordinaria sensibilità di intellettuale radicalmente ostile a tutte le “presunte rassicurazioni, mediazioni, certezze” si illuminasse a contatto con il “reliquario metafisico” di Joseph Cornell, riconoscendo in esso una risposta all'interrogativo sui modi della ricomposizione/ricombinazione, provvisoria/revocabile, del frammentario stesso.

Una volta mi è capitato di sostenere che la scrittura di Masini è un vero e proprio tentativo di divenire-con che trova espressione in quelle carte di fuga che ritroviamo nei suoi saggi, nelle sue poesie e nel suo romanzo sulla “vita estrema”. Carte che ci permettono di cogliere come in tale sperimentazione ciò che vale è il complesso degli incontri (pure degli scontri), in particolare dei cammini comuni, laddove la vita passa e così facendo fa filare via anche il mondo, i “mondi”. Masini lo dice chiaramente (è un compito che ho sempre avvertito come “mio”): bisogna “far nascere il sentire, far vivere questo sentire”.