Street art educativa
Serena Giordano

08.10.2021

Come è ormai evidente, la street art è a pieno titolo un capitolo della storia dell’arte. Ha un florido mercato, gallerie specializzate e collezionisti appassionati.

Non è difficile immaginare che, nel giro di qualche anno, le opere di Banksy o di Blu compariranno anche nei famigerati libri scolastici di “educazione all’immagine”, responsabili dell’indifferenza nei confronti dell’arte (quando non dell’antipatia) di generazioni e generazioni di studenti.

In questa nuova veste addomesticata, la street art (o ciò che ne resta) si è immediatamente messa a disposizione delle istituzioni. La scuola, in un tempo non così lontano, la demonizzava. Penso, per esempio, all’iniziativa delle scuole milanesi per l’educazione al decoro, volta a tenere lontani i ragazzini delle bombolette spray. O agli “angioletti del bello” a Firenze, bambini reclutati per imbiancare con gioia i muri.

Ma adesso, tutto è cambiato e street artist più o meno noti, partecipano con grande entusiasmo a “progetti educativi” di ogni genere. Sponsorizzate da banche e fondazioni, le iniziative sono rivolte a bambini, carcerati, disabili e migranti. Digitando, in rete, “street art” e le categorie di cui sopra, il lettore potrà avere un’ampia documentazione in merito.

Che cosa avranno in comune bambini, carcerati, disabili e migranti? Molto semplice, la mancanza di diritti. I bambini, soprattutto a scuola, non hanno diritto di replica, né gli è riconosciuta alcuna dignità di pensiero. I carcerati si vedono negati, ogni giorno, il diritto a un trattamento umano.

Ai disabili, a scuola, è negato il diritto alla differenza, sempre interpretata come un problema e mai come una risorsa. Infine, ai migranti è negato ogni diritto: di circolazione, di cittadinanza, di voto e così via. Qualcuno potrebbe domandarmi: ma allora? Non è una buona cosa parlarne?

La mia risposta è semplice. Insegnati e scolaresche sono chiamati a partecipare a questi progetti per ribadire la differenza tra la loro quieta normalità e la triste condizione di eccezionalità dei più sfortunati. E noi, che siamo buoni, ce ne prendiamo cura. Tolleriamo tutti, quindi, tolleriamo la differenza. L’unica condizione che poniamo è che non si parli di eguaglianza.

Questi festival della solidarietà a parole sono perfetti meccanismi di cancellazione del conflitto, dell’aspetto politico di questi temi. Con spirito ecumenico, chiamano a raccolta tutti, perché “siamo tutti coinvolti” (slogan che mi ha sempre innervosito non poco). Non a caso, fanno leva sul senso di colpa (di tutti) e mai sul concetto di responsabilità (di alcuni, con nome e cognome). Sono goffi tentativi di soffocare il conflitto con la cura.

E non occorre scomodare Michel Foucault per capire che la cura è inferiorizzazione e controllo. Il concetto di cura ha ormai pervaso ogni angolo delle nostre esistenze. Inoltre, dalla pericolosa alleanza tra pedagogia e psicologia è nato qualcosa di più potente e pervasivo della religione.

Come scrive Ivan Illich, viviamo una società interamente scolarizzata e, come nota giustamente Frank Furedi, la prepotenza della psicologia ha sostituito ogni relazione umana (I. Illich, La descolarizzazione della società, Mimesis, Milano 2019 e F. Furedi, Il nuovo conformismo. Troppa psicologia nella vita quotidiana, Feltrinelli, Milano 2005).

Così, per annientare le relazioni umane, che si esprima con la solidarietà o con il conflitto, la patologizzazione di ogni evento dell’esistenza separa gli individui, condannandoli alla solitudine dell’introspezione, in balia di un sistema che ricorda loro continuamente che il problema non è là fuori, ma dentro di sé.

L’arte è tirata in ballo come presunto strumento di “introspezione”, mentre, da sempre, altro non è che la testimonianza di relazioni esteriori tra gli individui ciò che, in definitiva, la rende così affascinante.

Ecco che cosa leggo su “La Repubblica” poco dopo il lockdown: “La street art come terapia per i ragazzi. Lezioni di murales per ripartire dopo il lockdowen”.(https://milano.repubblica.it/cronaca/2020/08/16/foto/la_street_art_come_terapia_per_i_ragazzi_lezioni_di_murales_per_ripartire_dopo_il_lockdown_-264763905/1/).

Il messaggio è chiaro. Guardiamoci bene dal suggerire ai ragazzi che il problema si risolve lottando per il diritto al vaccino in ogni angolo del mondo, nei paesi più poveri che non l’hanno ricevuto e, forse, mai lo riceveranno. No. Viene chiesto, invece, di impegnarsi con ogni forza a superare il trauma, a guardarci dentro, nella nostra animuccia ferita. E che c’è di meglio dell’arte terapia? Anzi, della murales terapia?

E se le nostre città sono inagibili per un disabile, per cui ogni azione della vita quotidiana diventa difficile o impossibile, al posto di lottare per i suoi diritti, possiamo optare per la pittura murale, decorando un bel “campo di fiori” sui muri di luogo in cui sono ospitati. Un esempio. Il Centro diurno di via Anfossi è un edificio bianco, così, per renderlo più bello, lo hanno coperto di colori.

Tutto sommato, il centro avrebbe avuto forse più impatto se fosse rimasto quel che era, ricordando a chi passa di lì il forte l’isolamento forzato di chi è o è considerato disabile. Ospita persone con una disabilità grave, persone che restano lì dentro, perché fuori non c’è spazio per loro.

Adesso, coperto dalle decorazioni floreali, apparirà come un luogo ameno, o come un asilo infantile. Le decorazioni, va detto, sono state realizzate dagli stessi ospiti del centro “con le proprie mani, ma sotto la supervisione di artisti esperti”. Chissà se qualcuno ha domandato ai diretti interessati se e che cosa avrebbero preferito dipingere.(https://milano.repubblica.it/cronaca/2019/11/19/foto/murale_orticanoodles_centro_disabili_diurno-241....

In questi ultimi anni, i progetti di street art nelle carceri si sono moltiplicati, mi arriva documentazione sul tema quasi ogni giorno. Ho anche perso buone amicizie mettendone in discussione i presupposti. Un tempo, gli street artist in carcere ci finivano per le azioni urbane. Adesso, entrano in quei luoghi per rieducare chi ha avuto la sfortuna di finirci, per far vivere loro l’illusione di una normalità che dura una giornata o una settimana.

Cerco di immaginare l’incontro tra uno street artist-educatore e uno “street artist-vandalo” arrestato per aver dipinto un muro. Che cosa penserà quest’ultimo quando gli verrà chiesto di prendere in mano nuovamente, bombolette, rulli e pennelli, ma dentro la galera?