23.10.2021
Recentemente mi sono imbattuto con una qualche frequenza in una parola – corrispondenze – la cui portata concettuale è certo tutt'altro che trascurabile, e non ci sarebbe bisogno di soffermarsi sul motivo. Non fosse altro che non mi riferisco alla celebre – e fondamentale per una storia culturale, e artistica, non così lontana – sfumatura del termine che si lega alla figura di Charles Baudelaire e alla dimensione evocativa e creativa del simbolico.
La “corrispondenza” in questione è invece di natura leggermente diversa e fa parte dell'armamentario teorico attraverso cui, negli ultimi anni, Tim Ingold articola la sua ricerca intersecando antropologia, filosofia, arte, architettura e, più in generale, per dirla all'antica, il mondo della techne, inteso nel senso del rapporto con l'esperienza pratica che si struttura nel vasto complesso di relazioni tra uomo e ambiente.
“Corrispondere”, in poche parole, significa comprendere di essere-nel-mondo. Si tratta di una modalità dell'esperienza che esclude ogni possibilità di distacco, che avvicina pratica e teoria, che alla fissità frontale dell'interazione antepone la dinamicità del reciproco intreccio di linee, di un soggetto e un oggetto sullo stesso piano (Cfr. Making, 2013, trad. it., Raffaello Cortina, 2019).
Chi mastica un po' di storia della filosofia può ben riconoscere nel pensiero di Ingold una matrice fenomenologica, l'influenza dell'opera di Merleau-Ponty e del concetto di Umwelt di von Uexküll; ciò che tuttavia caratterizza l'antropologo britannico è senza dubbio il metodo, lo stile di scrittura da cui emerge quella che sembra quasi un'ossessione giocosa del “toccare con mano”, di un avvicinamento totale del momento della “pratica” delle cose del mondo e della loro messa in scena teorica.
In questo senso, l'esperienza sensibile, l'intreccio di sguardo e corpo, sono elemento cardine di ciò che può dirsi corrispondenza, e manifestazione del rapporto indissolubile – da recuperare – con la natura in generale (Cfr. Correspondences, 2021. Tra pochi giorni uscirà la traduzione italiana per Raffaello Cortina). Questo vale per tutto quanto ci circonda, in ogni ambito.
Interagire con banali oggetti, passeggiare in un bosco, relazionarsi con un'opera d'arte: occorre far riaffiorare corrispondenze.
Perché,
allora, una premessa del genere ad alcune brevi considerazioni sul
lavoro di un'artista?
Per quanto ora possa sembrare scontato, Sophie Ko riesce a innescare nelle sue opere processi che, a mio parere, hanno molto a che vedere con lo stabilire corrispondenze. Anzitutto, tra se stessa e i componenti di cui il suo processo creativo si nutre quali colori, elementi vegetali, ceneri, terra. L'attenzione verso la materia dell'opera, il modo in cui essa traspare ed è messa in risalto ne sono testimonianza.
Si può sicuramente obiettare che il fatto che artista e opera si “corrispondano” sia ovvio, che è così che deve andare: certamente, anche se forse sarebbe più assennato usare il condizionale. Ma nel caso dei lavori di Sophie Ko – e credo sia questo il motivo del loro fascino – la corrispondenza, o qualche cosa di simile, si innesca anche con lo spettatore.
Ed
è proprio la materialità delle opere, soggetti esse stesse, a dare
inizio al gioco, allo scambio di sguardi con chi vi si trova davanti.
Se ci avviciniamo alle Geografie temporali non vediamo soltanto una serie oramai consolidata di lavori che cercano di tracciare una linea tra la tradizione della pala d'altare e, come spesso sottolineato, la ricerca di Claudio Parmiggiani.
Vediamo letteralmente materia in atto: e non potrebbe essere diversamente, dato che si tratta di opere i cui elementi sono effettivamente padroni dello spazio visivo.
I pigmenti puri, lasciati cadere, non solo conferiscono alle Geografie la forza simbolica di essere dei segna-tempo, dei disegni instabili tracciati dalla forza di gravità, ma si presentano nella loro materialità più essenziale. In questo modo, Ko, impostando e documentando l'azione spontanea degli elementi sulla superficie – siano essi pigmenti, polveri, ceneri o altro – crea le condizioni affinché il nostro sguardo colga ed entri in sintonia con un agire intrinseco delle cose, altrimenti difficilmente percepibile.
Ci sono poi altre opere che ci “corrispondono” con ancora maggiore efficacia, ora in mostra alla galleria De' Foscherari di Bologna (Sophie Ko, Il resto della terra, dal 9 ottobre al 7 gennaio).
Mi riferisco in particolare a due lavori, più di altri in grado di mettere in luce, ad un tempo, la poetica dell'artista e la forza, l'effetto di senso – in larga parte preterintenzionale – intrinsecamente esercitato dall'oggetto. Il primo è composto da tre finestre, ciascuna per un lato dello spazio espositivo.
Il riferimento alla figura di Alberti e alle origini elettive della pittura occidentale è immediato, e certo voluto: tuttavia non si tratta di tre aperture all'abisso dell'immagine (dipinta), quanto piuttosto all'abisso della nuda materia.
Sono finestre “murate”, al loro interno – salvo per
qualche frammento in una – terra, foglie e cenere prendono il posto
di ciò che la finestra dovrebbe rivelare. Viene quasi da dire che
quella che in origine era una finestra, e simbolicamente una cornice,
assuma la funzione di teca, annullando ogni effetto di sfondamento e
invitando a una visione più puntuale, ravvicinata, tattile.
Perché parlare di corrispondenza? Il motivo è sempre lo stesso. Ci troviamo davanti non a una rappresentazione, ma a una presentazione dell'elemento naturale che non ci lascia indifferenti e chiama in causa in primo luogo la nostra presenza come spettatori in carne e ossa.
In quanto tali, e solo così, acquistiamo piena coscienza della natura fisica di tutte le immagini, di ciò che le precede, le costituisce, e le circonda.
Similmente, dalla parte opposta dello
spazio espositivo, quella stessa terra che altrove era compressa,
esibita come copertura inerte solo in apparenza, si dispiega sul
muro. Il raccolto,
titolo dell'opera, si distende lungo la parete seguendo margini
invisibili ma geometricamente invalicabili e si offre alla visione
come una sorta di tela, e così ci corrisponde; ci invita a farci
vicino, a toccare e annusare. A conoscere un elemento che,
evidentemente, frontalmente si mostra in modo diverso che sotto le
scarpe.
Ora, il lavoro di Sophie Ko presenta una costante tensione verso una dimensione altra, un Assoluto, un terzo spazio, sempre più vicino ma per sua natura irraggiungibile.
Questa è certo la linea principale della sua ricerca e, vorrei aggiungere, è quella di chi – con linguaggi e media diversissimi fra loro, e risultati alterni – fa arte. Ma se la tensione creativa verso un universo del possibile, quale che sia la sua declinazione, è la via maestra per ogni ricerca, nessuna può giungervi a priori.
Riflettere su quella di Sophie Ko, ricorda Federico Ferrari, implica riconoscere subito le sue basi concrete. Mondane, si direbbe. Sarebbe fuori luogo concepirle come semplici aspirazioni a una trascendenza e a una perfezione dell'immagine, prive di concrete prospettive sul reale. Su una realtà certo ferita, fragile come la materia che le opere presentano, ma di cui nondimeno l'artista si fa carico, corrispondendo con essa così come lo spettatore.
È, del resto, il monito di Ingold: il nostro rapporto
con il mondo, oggi e in futuro, dipende dalla nostra capacità di
corrispondervi. Per questo apprendimento, la pratica artistica –
come nel caso della ricerca di Ko – può essere una palestra
fondamentale.