Silenziamento, riconoscimento e lavoro sulle assenze
Orsola Rignani

19.02.2022

I mesi, ormai si può dire addirittura gli anni, passano e l’arena socio-politico-mediatica continua a restituire, nel controluce di avvenimenti, notizie e scoop giornalistici, il balletto di pandemia (endemia?), cambiamento climatico, quarta rivoluzione industriale, sesta estinzione di massa ecc. ecc. Se questo accade ci sarà un perché; ma prima delle risposte, complessivamente ancora più o meno allo stato di ipotesi azzardose, mi sembra opportuno interrogarsi sull’esistenza di esigenze/emergenze, e in caso riservare loro attenzione.

Ciò che, a questo punto, mi trovo a raccogliere da contesti della riflessione contemporanea particolarmente sensibili nel tastare il polso al milieu attuale, quali considero il pensiero di Michel Serres e il postumanesimo, non privi tra l’altro di affinità reciproche, sono soprattutto istanze, mi viene da dire, di silenziamento, riconoscimento e lavoro sulle assenze.

Cerco di spiegarmi meglio. Di fronte all’altalena pandemica, alle ricorrenti crisi economiche, al capitalismo sfrenato, a tornado, incendi, inondazioni, siccità ecc., la riflessione serresiana e quella postumanista, nel constatare e proclamare, per così dire unanimemente, l’inconsistenza del proposito del ritorno a una normalità di fatto non più esistente nonché la natura perdurante e/o permanente dei cambiamenti intervenuti, rispettivamente ha additato/additerebbe e addita l’esigenza/emergenza della rimozione di “miti” quali nozioni gerarchiche dell’uomo, successo economico, risorse terrestri illimitate, con la contestuale proposta di attivazione di processi appunto di silenziamento, di riconoscimento, nonché di lavoro sulle assenze.

Quando Serres dice che l’io non esiste che fuori dall’io, che più penso meno sono me (M. Serres, Pantopie: de Hermès à Petite Poucette, Le Pommier, Paris 2014, p. 228), che fuori di me ricevo il “dato” (M. Serres, Les Cinq Sens. Philosophie des corps mêlés-1, Grasset, Paris 1985, pp. 376-381), che la lingua mi imprigiona e fa di me un io (M. Serres, Statues. Le second livre de fondations, Bourin, Paris 1987, p. 228), e quando il postumanesimo afferma che l’umano è un frutto ibrido e che siamo nella e per la relazione (R. Marchesini, Essere un corpo, Mucchi, Modena 2020, p. 22), entrambi esprimono infatti istanze di silenziamento. Ossia di messa in sordina di un linguaggio, di un logos, di una ragione che pretendendosi esclusiva esclude o lima le differenze; che considera la realtà una produzione umana; che, nel momento in cui appare un fenomeno relativamente stabile, un periodo o un’era coerente, lavora a fare dimenticare il caos, le smagliature, le fragilità, la volatilità del possibile.

Con ciò, il silenziamento risulta interimplicato con il riconoscimento e il lavoro sulle assenze; infatti, silenziamento è ridurre al silenzio, il quale, come sostiene Serres, espande, rimuove i confini, conduce al mondo (M. Serres, Statues, cit., pp. 226-228), e così facendo catalizza il riconoscimento della molteplicità, della varietà, della possibilità, delle zone interstiziali, delle interazioni delle cose e dell’umano in co-appartenenza con loro.

Ma, a loro volta, silenzio, molteplicità, possibile, interstizi, soglie, come testimoniano eloquentemente sempre la riflessione serresiana e postumanista, sono sovente assenze, ossia mancanze, buchi neri, rimossi del pensiero filosofico, sui quali quindi urge un lavoro. Provando a pensare l’impensabile, ci si può accorgere infatti appunto di un silenzio capace di levare barriere e separazioni, di svuotare di senso idee di appartenenza, di espulsione, di inclusione, di esclusione (ivi, p. 228), catalizzando così il riconoscimento di un reale in cui purezza, referenza unica, linearità si rivelano flatus vocis, in cui molteplicità, confluenze, possibilità, cioè le cosiddette assenze, sono pregnanze e in cui in definitiva ogni cosa sa fare, pur secondo differenze individuali, quello che noi umani crediamo di essere gli unici a potere fare e dire.

E proprio a quest’ultimo rispetto le proposte serresiane e postumaniste sono particolarmente ricche, variegate e intriganti. Tra queste non posso non richiamare le icastiche affermazioni de Il mancino zoppo (M. Serres, Il mancino zoppo. Dal metodo non nasce niente, Bollati Boringhieri, Torino 2016, pp. 225-226) sulla scrittura da parte del vento di una partitura musicale sulle onde del mare e sulle dune del deserto, sul calcolo da parte degli alberi della loro età nel legno; né tantomeno posso trascurare la suggestione serresiana e anche postumanista di rilevare che tutto dipinge, tutto fa concerti, non nel senso di fare diventare uccelli, vento, alberi, mare ecc. artisti, quanto in quello di riconoscere artisti come uccelli, vento, alberi, mare ecc. e perciò di riconoscere che noi facciamo come il mondo e quindi che, in definitiva, l’arte più alta consisterebbe, da parte nostra, nel captare, intercettare, essere impattati, corrispondere, emettere, restituire questa “agentività” universale.

Se tutto ciò, preso alla lettera, può sembrare estremo o discutibile, quello che mi pare comunque da raccogliere come spunto di riflessione è il sottotraccia, ossia l’idea, per dirlo ancora con Serres, che è l’oggetto a far nascere l’uomo che fa nascere l’oggetto; che l’oggetto comincia una storia che il soggetto, costituito da lui, continuerà; che gli oggetti e i soggetti si sostituiscono gli uni gli altri (cfr. Statues, cit. e Le Parasite, Grasset, Paris 1980). Secondo una commutabilità per cui l’umano è (con/tra) le cose, e/o secondo una relazionalità ibridativa di coappartenenza universale nel segno del riconoscimento che “noi siamo in questo insieme, ma non siamo l’Uno né il Medesimo” (R. Braidotti, Il postumano vol. II. Saperi e soggettività, DeriveApprodi, Roma 2022, p. 63).

Se dunque questo, in estrema sintesi, può essere il senso delle emergenze/esigenze di silenziamento, riconoscimento, lavoro sulle assenze, e perciò può essere il senso del richiamo serresiano e postumanista all’uscita intenzionale/coniugativa dall’io, visto che bene o male alla normalità reale, presunta o vagheggiata non pare si possa tornare, che i cambiamenti intervenuti non hanno intenzione di mollare la presa, che il “modello umanista” non ha funzionato né funziona di fronte a pandemia, crisi climatiche, economiche etc., cosa ci impedisce di provare a raccogliere e a rifinire queste stesse emergenze/esigenze?