Senza Titolo (la Pittura 5)
Carmen Lorenzetti

13.12.2021

La mostra STOP PAINTING alla Fondazione Prada di Venezia è congegnata in maniera esemplare dall’artista svizzero Peter Fischli, che per rendere evidente in modo programmatico la macchina espositiva, propone al piano terra il modellino della mostra che si staglia davanti allo sfondo di tessuto del “quadro” di Emil Michael Klein, estrema propaggine di tutta una tradizione iniziata con Blinky Palermo negli anni 60 (di cui c’è un esempio al piano nobile).

Già all’entrata è evidente il gusto teatrale e paradossale di fine drammaturgia con cui Fiscli interpreta il progetto. Infatti, appena si entra, di fronte c’è una fotografia con Henry Flynt e Jack Smith che protestano di fronte al MOMA di New York il 27 febbraio del 1963 contro il sistema dei musei e contro l’arte borghese.

Fanno da contrappunto le opere al piano superiore, dell’ultima sala intitolata Let’s go and say no, che ospita le azioni di Daniel Buren e i suoi uomini-sandwich (1968) avvolti nelle “pitture” a strisce per le strade, Catalysis III (1970) dove Adrian Piper indossa la scritta “Wet paint”, fino al ritiro dal mondo dell’arte via lettera di Lee Lozano (1969), che culmina con gli atti di rifiuto e dissacrazione nei confronti dell’arte da parte degli artisti come David Hammons che urina (Pissed off, 1981) sulla monumentale opera pubblica di Richard Serra T.W.U. fino ai rifiuti dell’arte di Boris Lurie o Gustav Metzger, al dipinto del museo che brucia di Ed Ruscha del 1968 o alla cancellazione del disegno di De Kooning (1953) da parte di Robert Rauschenberg.

Rifiuti e dannazioni che si iscrivono quasi tutti nell’arco degli anni 60, che sono stati il momento aureo del rifiuto della pittura e della critica del sistema dell’arte con la nascita della critica istituzionale. Posizione che ha avuto origine nella critica del soggetto e dell’autore e il conseguente rifiuto dell’Espressionismo Astratto e del suo alfiere Clement Greenberg.

Quella di Greenberg è stata l’ultima “grande narrazione” sull’arte modernista, che per il critico era iniziata con Manet e sarebbe finita con il suo apice rappresentato da Jackson Pollock. Tornando al piano terra, attorniano la foto di Flynt la grande X a stampa di Untitled, 2017 di Wade Guyton e il “segnale” STOP dell’Untitled, 2012 di Josh Smith (fondale della scala centrale): approdi contemporanei dell’”anatema” nei confronti della pittura.

Si salgono le scale e si entra nel salone intitolato Delirium of negation dove da un lato vi sono immagini di collage e ready-made, i luoghi topici della negazione della pittura, e dall’altro il quadro di Jörg Immendorff, allievo di Joseph Beuys, dove un personaggio entra nello studio di un pittore e gli chiede “Da che parti stai con la tua arte, collega?”, 1973, mostrando fuori una manifestazione politica.

Anche qui una negazione, ma fatta attraverso i mezzi della pittura, come l’altra opera famosa di Immendorff che, seppur non presente in mostra, la sottende. Si tratta del quadro Stop painting (1966) che partecipò invece ad un’altra mostra memorabile Painting 2.0. Expression in the information age (2015-2016) tenutasi a Vienna e Monaco, a cura di Manuel Ammer, Achim Hochdörfer, David Joselit.

La mostra tedesca per molti versi è d’ispirazione per le scelte di questa mostra, non foss’altro che per il fatto che molti di quegli artisti sono qui riproposti. E’ una linea interpretativa della pittura che parte, dicevamo nella critica degli anni Sessanta, con personaggi border line come Gene R. Swenson, contestatore del sistema dell’arte e del museo, anche lui vestito nel 1968 da uomo-sandwich, con un punto di domanda, di fronte al MOMA di New York e con un seguito di 300 persone che seguirono un picchettamento che durò due settimane.

All’epoca faceva parte dell’Art Workers Coalition, ma fu anche il primo difensore della Pop Art, da un lato militante, di recupero della realtà delle cose anche di quelle più scomode e impastate di vita (vi è raccontata la storia nel saggio del catalogo di Eva Fabbris).

Ma soprattutto è una linea interpretativa che parte dalle posizioni dell’influente gruppo di October che si inseriscono poi fin dentro gli anni Ottanta e fino ad oggi. Esemplari in tale senso sono gli attacchi alla pittura degli anni Ottanta come interpetata da Barbara Rose e l’esaltazione di Daniel Buren nel saggio di Douglas Crimp The end of painting (1981) e le narrazioni della fine della pittura insite nello spirito del Modernismo per approdare al sapore di morte nella pittura di simulazione degli anni Ottanta nel saggio di di Yve-Alain Bois Painting: the task of mourning (1986), inserito in un’altra mostra memorabile a cura di David Joselit, Endgame. Reference and simulation in recent painting.

Il salone è interamente occupato da un tavolone che sorregge gli stracci con cui pulisce i pennelli dell’opera (1983-2004) dello svizzero Jean-Frédérich Schnyder.

Fischli sembra dare qualche solitario colpo alla botte con questa esaltazione proprio degli strumenti del fare pittura, così come mi paiono su questo lato del discorso le nature morte di Kurt Switters nella sala Duri a morire.

Ma poi, nella stessa sala, la tensione critica riprende: infatti il perno dello spazio è costituito dai diciannove piccoli dipinti, 1973, di Marcel Broodthaers: tutti ben impilati a formare una scultura minimalista e circondati dai dipinti del situazionista Asger Jorn e, dall’allievo di Kippenberger, Michael Krebber con le sue “ridicole creature” del 2011.

Sono tutte variazioni sul disegno di una chiocciola fatto in una scuola per svantaggiati da parte della principessa del Galles: una copia, una riflessione sull’insegnamento dell’arte, un pensiero sulla circolazione delle immagini.

E questo ci riporta alla sala Niente da vedere niente da nascondere al centro della quale troneggia Orgonkise bei Nacht, 1982 di Martin Kippenberger e Albert Oehlen: un contenitore con una fessura da cui si intravvedono dei quadri molto colorati impilati e debolmente illuminati da una lampadina.

Kippenberger con il suo Heavy Burschi del 1990-91 una complessa installazione fatta di quadri eseguiti dal suo allievo Merlin Carpenter (presente in mostra con un quadro con parole di negazione), copie da fotografie, tradotti in poster mostrati alle pareti, mentre gli “originali” erano in un grande cassonetto. Metafora perfetta dello status attuale della pittura e della sua fortuna, comprimaria di quella affannosa circolazione delle immagini che ci assedia per ogni dove.

L’interpretazione è dovuta a Joselit nella mostra citata Painting 2.0, dove quest’opera di Kippenberger gode di un lauto approfondimento, e nel contempo anticipata nel 2009 dallo stesso autore nel fortunato saggio Painting beside itself dove viene data l’impronta della genealogia degli atti di “rottura” o interpretazione critica della pittura: da una parte la genealogia tedesca a partire da Kippenberger, dall’altra quella statunitense a partire da Stephen Prina, di cui in mostra c’è l’allievo Guyton.

Un’altra figura seminale per la “pittura” di inizio XXI secolo è John Kelsey, membro del collettivo neworchese Reena Spaulings (presente in mostra con una “soglia”: un dispositivo metadetector vicino al video di Andy Warhol che dipinge una MBW, 1974) e Bernadette Corporation. Kelsey presenta dei quadri con immagini di edifici di Apple e Facebook (2013), inserendo la pratica della pittura in una rete di significazioni mobili e di appropriazioni della grammatica della contemporaneità, soprattutto rappresentata dalla New Economy.

E così finisce l’ultimo saggio del catalogo di Arthur Fink, che fa un escursus sulla scrittura critica e conclude citando Helmut Draxler secondo cui la pittura è tutt’altro che morta, perché “permea la cultura (visiva) moderna, dove si è in qualche modo naturalizzata”…. Infatti ”Se come prassi è diventata obsoleta, continua ad agire sottopelle e a strutturare il dispositivo mediale del nostro tempo”.