11.01.2021


Senza Titolo (La Pittura)

Carmen Lorenzetti

Gerhard Richter, Quadro astratto, 2016, olio su tela, particolare

Forse ho peccato di hybris a pensare di iniziare con un articolo dedicato alla pittura. Nel senso che, dopo un trentennio in cui non era tanto di moda, non che non ci fosse, ma andavano di moda le installazioni, le videoinstallazioni e poi più di recente la fotografia, ora ce n’è anche troppa. E uno si perde a navigare tra articoli e classifiche, interviste e recensioni sui pittori (Cfr gli interventi di Damiano Gullì, Roberto Ago in Artribune e Flash Art NO 345, VOL 52 luglio-settembre 2019). Ecco, forse questa è un’altra chiave di lettura: si scrive molto sui pittori, meno sulla pittura. Luca Bertolo nella sua raccolta di articoli “I baffi del bambino. Scritti sull’arte e sugli artisti”, Quodlibet, 2018, sottolinea più volte il vuoto critico pluridecennale riguardante (anche) la pittura. Di fatto si fanno parlare gli artisti e si fa bene, dato che sono loro a dire le cose più interessanti e consapevoli.

Da una parte abbiamo subito il fascino della scuola d’oltreoceano, i critici della rivista October che proclamavano l’avvento dell’era postmediale (Rosalind Krauss e il suo noto L’arte nell’era postmediale, I° Ed 1999) e, ancora prima, gli stessi artisti minimalisti e concettuali americani che parlavano di “oggetti specifici”, senza più distinzioni appunto tra pittura, scultura ecc (ma ancora prima Allan Kaprow). Poi con gli anni Novanta, quando si affermava l’arte neoconcettuale (e anche il multimedia, ma ha avuto una storia meno di successo), l’arte ha acquisito sempre di più uno statuto ibrido, non solo il soggetto, la psiche e il corpo, non solo il genere e la razza, ma poi anche lo statuto di altre discipline: dall’etnografia, alla sociologia, alla cartografia, la scienza, la storia, gli studi postcoloniali e ora l’ecologia….. e man mano che passa il tempo, un’opera d’arte si sente in dovere di essere giustificata da una storia, un racconto che si riferisca all’attualità preferibilmente (con esiti anche ineccepibili). Ovviamente sto parlando del discorso sull’arte, quello a cui siamo sempre più frequentemente abituati: non dico solo i social networks, ma le riviste on-line che sono quelle più lette o le riviste più commerciali. Ma forse, a ben pensarci, anche le presentazioni delle gallerie risentono di questo vizio. Sembra quasi che l’opera attraverso la narrazione che le si costruisce intorno possa godere di una migliore reputazione. Spesso tuttavia questa narrazione è pretestuosa e scorre via come l’acqua.

C’è un articolo scritto con assoluta arguzia nel libro di Bertolo citato, che reputo centrale e importante, dove sembra fare un salto indietro, ma in realtà descrive la necessità odierna dell’arte. Il pezzo è dedicato all’”antipatico” Clement Greenberg, quel critico che aveva un occhio potente, capace di cogliere l’impalpabile qualità del quadro che gli si parava davanti di primo acchito. Arthur Danto lo prende un po’ in giro nel suo “Dopo la fine dell’arte” (I° Ed 1997) quando ne descrive la mimica del riconoscimento dell’opera, del resto Danto è il profeta della fine dell’estetica e dell’avvento della filosofia per l’interpretazione dell’arte. Anche noi, a casa nostra, abbiamo avuto uno storico dell’arte famoso per avere un occhio infallibile nel riconoscimento della qualità della pittura, conoscitore dell’antico, ma anche grande estimatore di Morandi: Roberto Longhi. Me ne ha ricordato l’importanza Luca Caccioni in una recente conversazione (non me ne sarei dovuta dimenticare come ex-borsista della Fondazione Longhi). Quel che succede oggi è che sono molto rari quelli che riescono a riconoscere la qualità di un dipinto, che lo sanno leggere, decodificare, interpretare come dispositivo in primo luogo formale. Di fatto siamo ormai un popolo di smemorati, pieni di amnesie e invece la pittura ha una storia e si basa sul confronto: nelle accademie di Belle Arti, le palestre della mente, spesso nelle classi di pittura e scultura non si insegna più né l’arte antica, né l’arte medievale e tutto è appiattito sul contemporaneo. 

E’ giusto un esempio, ma è sintomatico di una visione del mondo che guarda in maniera miope e confusa il solo presente. Qui subito qualcuno mi può tacciare di conservatorismo, lo faccia pure. In realtà se si parla con gli artisti, italiani e stranieri, c’è una grande consapevolezza della storia dell’arte antica e contemporanea e il confronto è continuo. Oggi è diventato un mantra: l’arte è tutta contemporanea (G. Agamben, Che cos’è il contemporaneo?, 2008). Ed è indicatore di un momento diverso con uno sguardo che si confronta con lo specifico dell’arte, storico o contemporaneo che sia. Il che non significa una chiusura ed un ripiegamento dell’arte su se stessa, ma lo studio della sua struttura e un gioco dialettico sul sistema, composto per dirla con Filiberto Menna (La linea analitica dell’arte moderna, 1975) da “peinture” e “tableau”, corrispettivi della “langue” e della “parole”. E’ forse indispensabile tornare a questi fondamenti dell’analisi dell’arte e della pittura, per evitare non solo i trabocchetti dell’emozione e dell’immediatezza, ma per recuperare nei fondamenti del linguaggio lo sguardo che si è perso.

Ho cominciato dicendo che soprattutto la critica non è più capace di vedere e quindi di interpretare, ma questo handicap è in realtà diffuso nella società. Bisogna recuperare lo sguardo, risvegliare l’apatia, superare le consuetudini opprimenti che regolano la nostra visione nei format ancora largamente imperanti della pubblicità televisiva, dei film di cassetta, dell’immagine preconfezionata persino delle telecamere dei nostri smart-phone (Hito Steyerl, Duty free art, I° Ed. 2017). Questo sa di resistenza, non di conservatorismo, di consapevolezza, non di ripiegamento, anzi di slancio direi che è rivoluzionario nel chiacchiericcio, rumore di fondo, di indistinto in cui siamo immersi. Siamo in un’epoca iconodula, impera l’immagine e abbiamo il dovere di decifrarla. La pittura che è incentrata sull’immagine (anche quella astratta come l’ultimo Gerhard Richter) lavora proprio su questo. E’ arrivato il momento di aprirsi ad un nuovo paradigma che reinserisca il sensibile (in maniera provocatoria anche quello dei pazzi, emarginati, autodidatti, carcerati, primitivi…) nell’arte. Massimiliano Gioni ha fatto da apripista con la sua Biennale di Venezia del 2013, ce lo ricorda Mario Perniola in “L’arte espansa” del 2015.