Se leggere fumetti non è più un rituale
Matteo Gaspari
Hamelin Associazione Culturale
Rituale © Marco Libardi, 2022
29.01.2022

Nel corso degli ultimi mesi, questa rubrica, dedicata all’esplorazione di strade e forme alternative al graphic novel (e soprattutto a un certo tipo di graphic novel) comunemente inteso, si è concentrata sulle serie a fumetti e su alcune loro caratteristiche aliene al romanzo.

Potremmo dire che la serialità abbia particolarmente sofferto l’affermazione del romanzo a fumetti, ma, intendiamoci, è stato un crimine senza vittime: il fumetto seriale, soprattutto nella sua accezione di “fumetto popolare”, sta bene e anzi sta economicamente meglio del suo giovane fratello da libreria.

È però vero che, se il graphic novel ha portato il fumetto a un nuovo pubblico, ha al contempo tenuto quel pubblico lontano da alcune forme e modalità di fruizione, in primis quelle legate appunto alla serialità, contribuendo o forse solo facilitando il progressivo assottigliarsi di tutta una fetta di mercato che se anche rimane per ora dominante pare poco alla volta perdere terreno.

La stessa Sergio Bonelli Editore, pur ottenendo risultati altalenanti con le testate dedicate ai suoi personaggi storici, sembra iniziare a guardare con maggior interesse alla libreria tanto per conquistare parte di quel pubblico nuovo quanto in risposta al relativo successo, con un paio di notevoli eccezioni, delle sue serie recenti ma, per così dire, vecchio stampo.

Con “vecchio stampo” non intendo dare un giudizio di valore, ma una blanda caratterizzazione formale: prominenza del personaggio e soprattutto di un personaggio dalla scarsa o nulla evoluzione, struttura degli episodi verticale, relativa dimensione autoriale con sceneggiatori e disegnatori che si avvicendano di frequente.

Penso per esempio al Dylan Dog più classico e al suo “mostro del mese”. Ogni puntata un’avventura, leggibile a sé (anche se non necessariamente godibile appieno) a fronte di una basilare conoscenza a priori del personaggio ma senza necessità di sapere cosa gli sia accaduto nelle puntate precedenti.

Ecco, è quel modo specifico di intendere la serie a fumetti a farsi meno efficace, con le nuove proposte che non emergono dalla marginalità nonostante una qualità di tutto rispetto – penso per esempio a Morgan Lost di Claudio Chiaverotti, sorta di noir ambientato in una distopia burocratica cyber-faraonica – o per uscire da Bonelli al Samuel Stern di Bug Comics, ma anche con le testate bandiera i cui numeri poco alla volta si fanno imparagonabili a quelli dei “tempi d’oro”.

È una battuta ricorrente nel mondo fumetto che i lettori di Tex diminuiscono perché muoiono di vecchiaia, suggerendo con ironia che il pubblico di riferimento della testata sia un gruppo chiuso formato sempre dalle stesse persone, un gruppo nel quale quasi nessuno ha interesse a entrare ma da quale si esce inevitabilmente. E se pure tale rimane – una battuta e nemmeno una che brilli per sagacia –, nasconde un senso di verità ineffabile eppure ben percepibile: quel tipo di serialità ci appare effettivamente in un qualche modo inattuale, alieno alle contemporanee modalità di fruizione.

Poco male, si dirà: i tempi cambiano, i gusti pure. È così che funziona il mercato. Ma c’è una dimensione risonante che vacilla e va perdendosi assieme a quella serialità ed è la dimensione rituale della lettura di cui quei prodotti erano portatori. Il rito, nel senso proprio del termine, è una pratica collettiva che si nutre di ripetizione, di simboli e di forme codificate; la reiterazione è suo prerequisito fondante che genera una permanenza nel e del tempo.

La serialità classica è quindi legata a doppio filo a una dimensione rituale che tuttavia si fa sempre meno predominante – nel passaggio da episodi verticali a strutture narrative orizzontali, nell’annullamento dei tempi d’attesa e di conseguenza del portato simbolico di quell’attesa, nell’atomizzazione di una proposta editoriale personalistica, nella fruizione bulimica del nuovo che rifiuta la ripetizione.

Nel denso saggio La scomparsa dei riti, il filosofo Byung-Chul Han esplora con puntuale assertività la scomparsa della dimensione rituale non dallo specifico dell’editoria a fumetti in Italia ma nella società tutta. In questa chiave di lettura, possiamo quindi interpretare l’affievolirsi del riscontro per un certo tipo di fumetto circoscrivendolo come realizzazione locale di una tendenza globale ed è forse utile farlo perché ci fornisce uno strumento interpretativo che esula da considerazioni sulla mutevolezza dei gusti di quel pubblico nuovo nato con il graphic novel quanto sulle abitudini in via d’estinzione del vecchio pubblico cresciuto a pane e “Corriere dei Piccoli”.

Si dice spesso che il lento declino (lungi dall’essere drammatico e altrettanto lungi dall’essere irreversibile, ripetiamolo) del fumetto popolare sia legato alla progressiva scomparsa delle edicole a cui quel tipo di fumetto era ed è particolarmente legato. Ma se è vero che il loro numero è drasticamente diminuito nell’ultimo decennio, con cause ed effetti ben esplorati altrove, è anche vero che non siamo vicini a un collasso infrastrutturale e distributivo, che esistono canali alternativi, che Tex rimarrebbe Tex anche alla Feltrinelli.

È invece incontrovertibile che l’edicola ha via via perso la sua funzione simbolica di cattedrale laica per quel rito collettivo che era l’acquisto di periodici di varia natura: non è una questione di non poter acquistare e consumare l’albo Bonelli, è l’esperienza rituale che in quell’albo si compiva a scomparire.

Letta in questi termini, il passaggio dall’edicola alla libreria, dall’assortimento di un numero limitato di periodici ad altissima tiratura alla parcellizzazione di trentamila novità librarie pensate ognuna per un numero ristrettissimo di lettori, assomiglia a quello dalla collettività del rito all’affermazione narcisistica del sé che Han identifica come concausa per la morte della ritualità nel mondo contemporaneo.

Il filosofo afferma poi che “la ripetizione è il tratto essenziale dei riti. Si differenzia dalla routine in quanto capace di generare una particolare intensità”.

Potremmo dire che leggere Julia di mese in mese, con il suo senso di chiusura a ogni storia e il suo reiterarsi nell’uscita successiva, ha un che di ripetizione, mentre la brevissima vita del graphic novel medio – che verrà (si spera) acquistato e poi letto e riposto per far spazio alla nuova pubblicazione – assomiglia alla routine. Il mercato, scrive Han, rifugge la ripetizione e stimola invece la routine perché la routine significa spinta verso la novità, significa supporto per una coazione a produrre fondante per modello capitalistico neoliberale. Una coazione a produrre di cui l’editoria sa qualcosa.

In questo senso, credo non sia casuale che tra le new entry di casa Bonelli, la serie di maggior successo, anche solo per tenuta temporale (e infatti ormai non più tanto “new”, la pubblicazione è iniziata nel 2013), sia Dragonero. Pensata e quasi interamente scritta da Stefano Vietti e Luca Enoch, è un fantasy abbastanza classico, con personaggi tipici del genere e l’avvicendarsi delle loro avventure in un mondo, come da tendenze attuali, ben mappato e geo-politicamente stratificato. Ma è nella struttura narrativa diagonale che, credo, stiano le ragioni del suo successo e di certo la sua rilevanza.

Fin dal principio gli episodi sono stati quasi sempre verticali, fruibili anche singolarmente dal lettore distratto, con solo occasionali storie che proseguivano su più volumi. Tuttavia ogni puntata, ogni avventura autoconclusiva, colora il mondo di personaggi ricorrenti, suggerisce in maniera via via più esplicita una progressione orizzontale e direzionata della storia, anticipa personaggi che diverranno importanti in seguito, dà l’impressione di una struttura più ampia.

Se vista “dall’alto”, nel suo complesso che pure è un complesso in espansione, Dragonero propone un modello di serialità più vicino a quello orizzontale che caratterizza i prodotti attuali, addirittura in un certo senso narrativamente più vicino al graphic novel e a tanto manga seriale di successo: si percepiscono una direzione, un’evoluzione e quindi una fine (o una successione di finali, uno per ogni ciclo o arco narrativo).

E tuttavia, nel suo mantenere una forte componente verticale, un incedere fatto di episodi singoli pubblicati in un eterno ripetersi di uscite mensili da un punto di vista formale e simbolico sempre uguali a sé stesse, recupera anche quella fruizione rituale tipica dei classici Nathan Never o Tex o Martyn Mystère. Varrebbe la pena di leggerlo anche solo per questo: “la ripetizione è il tratto essenziale dei riti” e i riti “stabilizzano la vita per mezzo della propria medesimezza, della propria ripetizione”. La ripetizione di andare in edicola mese dopo mese, la medesimezza di ritrovare quel marcantonio biondo e il suo amico orco in una nuova scorribanda che li metterà alla prova ma che, immancabilmente, supereranno.

[Fine?]