Sapersi prendere lo spazio necessario
Matteo Gaspari
© 2007 Inio Asano – Oyasumi Punpun, Shogakukan; ed. it. © 2021 Panini Comics, Buonanotte, Punpun

29.10.2021

Parlavamo di serialità nel fumetto e accennavamo a come le mutate abitudini dei lettori e un generale cambiamento dell’assetto distributivo – leggi: la graduale scomparsa delle edicole – ne stiano decretando il lento declino. È opportuno ribadirlo: le serie a fumetti continuano a esistere e anzi sono la forma di produzione più stabile ed economicamente sostenibile del settore.

Tuttavia, con tanto parlare dell’ormai avvenuta affermazione del fumetto come linguaggio culturalmente legittimo, sono proprio le forme più tradizionali di racconto disegnato (la serie, la striscia e il racconto breve) a essere perlopiù lasciate da parte proprio da quei salotti buoni che finalmente si rivolgono al fumetto senza sguardo di compassione né di derisione: librerie, scuole e biblioteche, stampa culturale generalista (e spesso specializzata).

Da persona che si interfaccia ogni giorno con insegnanti, bibliotecari, librai ed educatori a vario titolo posso affermarlo senza tema di smentita: persino il più illuminato degli operatori, che alla sua classe o al suo pubblico porterebbe il fumetto anche se non è una biografia di Frida Kahlo o la versione disegnata de L’isola del tesoro, storcerà il naso all’idea di approcciarsi a una serie. Ed è comprensibile.

Facciamo finta che non esista alcun problema di legittimità culturale, che qualsivoglia forma di pregiudizio sia stata a lungo dimenticata, che in generale abbiamo risolto l’idiosincrasia per la quale riconosciamo come oggetti letterari solo quelle letture che rifuggono l’intrattenimento come se fosse il peggiore dei mali, che ci siamo liberati dallo snobismo con cui dividiamo l’autoriale dal popolare e in virtù del quale schifiamo la narrazione di genere… Insomma, facciamo finta che il fumetto sia davvero stato legittimato in quanto linguaggio, e che siamo arrivati a un punto in cui sappiamo davvero separare ciò che ha del valore da ciò che non ne ha.

È un bello sforzo d’immaginazione, mi rendo conto, ma proviamoci. Ecco, anche in questa utopia baciata dal sole e allietata dal perenne canto degli uccellini il prodotto seriale parte svantaggiato. È una banale questione di comodità, di soglia d’attenzione, di economia tanto monetaria quanto temporale.

Una serie, anche che esca con regolarità da orologio svizzero una volta al mese, ci costringe a una lentezza di fruizione alla quale, nella nostra attuale ingordigia di narrazioni, non siamo più abituati.

Bisogna starci dietro con pazienza, leggere a singhiozzo, talvolta rileggere volumi archiviati chissà dove per recuperare dettagli di trama ormai dimenticati, tornare di tanto in tanto in fumetteria a prendere l’ultima uscita stando ben attenti a non perdere dei pezzi.

E qualora succedesse, di aver dimenticato un tassello, sperare che l’editore sia abbastanza sano (da un punto di vista economico e forse morale) da permetterci di rimediare invece che lasciarci inveire contro quel “momentaneamente non disponibile” che gli appassionati di fumetto sanno avere l’odore dell’eternità.

Detto in altre parole, pure a prescindere dalle questioni di legittimità siamo diventati lettori occasionali, distratti e poco dediti – anzi, statisticamente non siamo nemmeno lettori – per cui non sorprende che questo formato soffra una certa ritrosia da parte del pubblico. Andare in edicola ogni due settimane per chissà quanto tempo? Molto meglio ordinare una storia autoconclusiva sfogliando Amazon dal divano, spedizione in 24 ore inclusa.

È talmente più comodo comprare e leggere un graphic novel fatto e finito che ritengo questa comodità la causa del successo del “romanzo a fumetti” almeno quanto l’aura di autorialità che da subito ha accompagnato il termine.

Dal lato della produzione le cose non vanno meglio, com’è facile immaginare: anche al netto della moria dei canali distributivi canonici, produrre una serie (non dico tradurla, dico proprio produrla) ha costi e tempi impegnativi anche per l’editore più volenteroso ed è un’operazione che suona più come una scommessa.

Non di rado, anche nel caso di acquisizioni estere, le vendite non giustificano i costi e più di un qualche titolo creerà un buco di bilancio se portato a termine oppure non vedrà mai la fine lasciando quei pochi interessati (leggi: me) con l’amaro in bocca. Ci sta, capisco che stiamo muovendoci collettivamente in un’altra direzione. Però che fastidio…

E quindi ok, le serie sono complicate da produrre, da leggere, da cercare. Col graphic novel è più facile. Però. C’è un però. Ok la comodità e il rischio editoriale più contenuto, ma quante cose ci perdiamo? Quanto limitante è, o può essere, questa scelta non del tutto consapevole di restringere il campo delle nostre letture ai volumi unici?

Fumetto e narrativa condividono se non altro l’aspetto materiale: il mezzo, cioè l’oggetto libro, che ha le sue limitazioni. Lasciando da parte l’argomento da bimbo delle elementari per cui il fumetto si leggerebbe in fretta perché ha poche parole e tanti disegni, è bene comunque comprendere e accettare che pur avendo diversa o addirittura maggiore densità semiotica, il fumetto ha tendenzialmente minor densità narrativa.

Detta brutalmente come se stessimo parlando di quantità misurabile, a “parità di trama” ha bisogno di più pagine. Potenzialmente di molte più pagine.

In quest’ottica, il graphic novel comunemente inteso è uno strano compromesso: al di là di riflessioni sulle strutture narrative e su quanto poco romanzesco ci sia in quelle cose che chiamiamo romanzi a fumetti, non è abbastanza asciutto da contare come racconto breve né è abbastanza arioso da potersi espandere alla bisogna.

Ci sono ovviamente mille controesempi, dal Blast di Manu Larcenet al Big Questions di Anders Nilsen financo a Il grande male di David B. (tutti titoli nati seriali o quasi, peraltro, e solo successivamente raccolti in volume).

Ma se volessimo andare ancora oltre, portare nel fumetto le narrazioni d’ampissimo respiro dei classici russi o dei romanzi-mondo del post-modernismo, insomma se volessimo fare davvero il grande romanzo a fumetti… sul serio crediamo che questo potrebbe venir compresso in volumi unici dalla ragionevole foliazione?

O non sarebbe piuttosto ben più naturale pensarlo come una serie lunga? Magari prodotta, pubblicata – e pensata, si spera – in modo da essere fruita un pezzetto alla volta in modo che contenente e contenuti si rafforzino a vicenda.

Mi viene in mente un esempio, non a caso dal Giappone. Il vastissimo mondo del manga meriterebbe in realtà altri ragionamenti, me nell’ottica di questa riflessione vale la pena sottolineare come sia un mercato che non ha alcun problema con la serialità.

E questo tanto in patria quanto in traduzione, nel primo caso per una complessa struttura di ragioni storico-economico-produttive, nel secondo per via di un certo feticismo nippofilo tipicamente occidentale e abbastanza trans-generazionale. Risultato: mentre l’editoria procede convinta verso il romanzo a fumetti, il manga si muove in direzione ostinata e contraria.

Quando iniziò la pubblicazione di Buonanotte, Punpun, nessuno che non leggesse il giapponese sapeva davvero cosa aspettarsi: sarebbero stati due o cinquanta volumi?, di cosa avrebbe parlato?, e in che modo?

Fino a quel momento, Inio Asano si era confermato uno dei più rilevanti narratori a fumetti, ma sempre con storie compatte, al più raccolte di racconti connessi quel tanto che basta per suggerire un affresco più grande. Punpun invece, con quelli che sarebbero poi stati i suoi tredici volumi, prometteva d’essere una faccenda altra.

È una storia di rara crudezza, capace dipingere con un’onestà di sguardo e un’assenza di pudore a tratti sconcertante gli abissi di bruttura in cui scende il suo protagonista, succube consapevole della nemesi irresistibile Aiko Tanaka e del vuoto lasciato da una famiglia (e una società) disastrata.

Ma più di ogni altra cosa è una storia lunga. Piena di invenzioni visive che si caricano di simbolismo pagina dopo pagina, con una ricchezza di sguardo e un approccio chirurgico alla coralità, ma soprattutto lunga. Dolorosamente quanto inevitabilmente lunga: Buonanotte, Punpun racconta una vita intera.

Incontriamo lo sventurato da bambino e lo seguiamo nel suo disgregamento morale – che si farà definitivo negli ultimi capitoli – fino all’età adulta, accompagnandolo nel limaccioso percorso di distruzione che si lascia dietro. Mese, dopo mese, dopo mese. Dopo mese. È una lettura che richiede tempo e pazienza.

Ma per quanto ingiustificabile sia l’inettitudine di Punpun, abbiamo avuto modo di vederlo crescere quasi senza ellissi, siamo familiari con le radici del suo (non) essere e con il contesto famigliare e amicale che le ha generate. Lo conosciamo, insomma, nel senso vero del termine.

La compassione (pur senza sospensione di giudizio) non è richiesta al lettore, gli viene donata da quel particolare tipo di conoscenza intima che si costruisce con il tempo.

Ecco, in questo senso la pazienza richiesta al lettore non è solo il prezzo da pagare per fruire la visione di un autore che più di molti altri ha detto qualcosa d’importante sulla contemporaneità e sui suoi abitanti, è il fondamento che permette a quella visione di esser raccontata con la forza necessaria a renderla più di un gioco voyeuristico.

Punpun è di certo il lavoro più ambizioso, pure se non il più riuscito, di un Asano intento a scavare nel torbido rifuggendo ogni iato, a condannare un’umanità imperdonabile senza sintesi alcuna. Impossibile, ingiusto addirittura, comprimere un tale discorso, arco di vita e una coralità di così ampio respiro in un numero di pagine adatto alla pubblicazione in volume.

E se Buonanotte, Punpun è uno dei capolavori del fumetto contemporaneo, e certo lo è, quanti l’avranno mancato perché alla fine della fiera rimangono, comunque, tredici volumi?

[Continua nella prossima puntata]