Salvare l'arte o la natura?
Stefano Righetti

26.11.2022

Una certa concezione estetica vorrebbe che ogni azione su un’opera ricada inevitabilmente nel gesto dell’arte, quasi che l’estetico, una volta attivato, funzioni come una sorta di labirinto da cui sarebbe impossibile uscire, e chiunque vi si avvicini, qualunque gesto osi sfiorare la complessa e mai stabile categoria dell’arte ne debba a sua volta rimane incantato ed esserne assorbito. Ma perché il dispositivo si attivi occorre che la sua esistenza sia riconosciuta, altrimenti ciò che doveva incantare perde il suo potere incantatorio e l’azione, che così pericolosamente si avvicina all’arte, ne è respinta al di qua – arrestata, appunto.

È capitato spesso. Chi ha colpito la Pietà di Michelangelo, rompendo con un martello il viso perfetto della Vergine, ha visto il suo gesto derubricato irrimediabilmente nel vandalismo e così sanzionato. Anche a livello estetico. Si può immaginare di aggiungere qualcosa a Michelangelo, senza che l’aggiunta non costituisca inevitabilmente una sottrazione? Ma è un terreno scivoloso: la copertura delle parti intime alle figure del Giudizio universale fu realizzata per ristabilire il religioso rispetto del pudore e per un certo tempo nessuno ebbe molto da ridire.

La macchina dipinta da Andy Warhol e cosparsa di farina è un’opera a sua volta pop, ma la prima è difesa da avvocati e forze dell’ordine, la seconda sarà considerata probabilmente un reato. In altre epoche, ciò che oggi i musei difendono dietro lastre di vetro anti-sfondamento era sequestrato dalla polizia come materiale contrario al pudore e alla pubblica morale. È quello che successe alla prima e unica mostra in galleria di Amedeo Modigliani, fatta chiudere dalla questura poco prima dell’inaugurazione col pretesto che in vetrina era esposto un nudo.

Ma volendo sospendere per un momento i risvolti penali del caso, quello che accade in questi giorni alle opere “attaccate” dagli attivisti nei musei ci dice anche un’altra cosa e pone una domanda del tutto diversa. Sia sull’opera che sul museo e, in un certo senso, sul nostro andare per musei.

Dopo le esternazioni provocatorie delle avanguardie non ci eravamo forse più soffermati molto sul tipo di fabbrica che i musei sono nel frattempo diventati. Il che può forse spiegare l’attuale incomprensione, da parte di molti opinionisti, riguardo alle azioni (ma per ciò che dicevo all’inizio, poiché interne a uno spazio espositivo, occorre chiamarle più appropriatamente performance) che i giovani attivisti stanno realizzando all’interno dei musei per “sensibilizzare” (come si dice nel gergo giornalistico) su qualcosa che invece non andiamo o non vogliamo volentieri a vedere, o a cui non pensiamo con piacere, perché il suo pensiero probabilmente ci turba e ci inquieta.

Esiste in questo, possiamo dire, una sorta di sostituzione negativa a cui il museo dà oggi luogo. La stessa sostituzione che lo spettacolo determina nei confronti di quella che sdegnosamente le avanguardie chiamavano realtà. Si va a museo perché si va in gita e la gita è, per definizione, distrazione (letteralmente: distacco, separazione). Nello spazio espositivo, l’arte condivide oggi la medesima funzione ricreativa dello spettacolo, dove il ri-creare si limita all’esperienza del limitato oblio tra il momento in cui paghiamo il biglietto per il museo e il momento in cui ne usciamo tornando a noi stessi.

Allo stesso tempo, il museo è il luogo celebrativo dell’arte, e l’arte è in sé e per sé il virtuosismo dell’espressione tecnica in quanto tale. E questo rappresenta forse il punto più significativo della questione. Di fronte al dipinto di un paesaggio o ai girasoli di Van Gogh non ci troviamo mai di fronte alla natura o ai girasoli, ma ci troviamo sempre di fronte alla loro sovrapposizione e sostituzione tecnica. L’arte (in quanto arte) è sempre l’espressione di una sfida tra tecnica e natura (di come rendere la natura, di come ritrarla e di come farla diventare allo stesso tempo qualcosa del tutto diverso da ciò che essa è in quanto e come natura). Anche quando l’opera ricerca la sua possibile armonia con la natura, l’arte mantiene sempre in sé il principio della sfida a “fare propria” la natura (gli esempi architettonici sarebbero infiniti).

Ma mentre celebriamo all’interno del museo l’artificio della bellezza puramente formale dell’arte, le azioni tecniche per la salvaguardia della natura rimangono sostanzialmente assenti dai programmi politici, al di là delle dichiarazioni di circostanza. L’allarme per il clima non ha prodotto fino ad oggi quasi nessuna risposta significativa. In primo luogo per l’impossibilità che una seria risposta non metta in discussione quello che abbiamo assunto a nostro modello di vita.

Non agiscono i governi; e non sono in grado di agire gli organismi sovranazionali, al di là delle dispendiose (anche in termini di consumi) convenzioni sul clima. E, soprattutto, la messa in discussione dell’attuale modello di vita e sviluppo non è interesse del medio consumatore globale, abituato a soddisfare ogni bisogno all’interno del sistema di produzione e consumo nel quale gli è dato di vivere. Che di questo sistema l’arte sia essa stessa parte è quello che le avanguardie avevano, a loro volta e in vario modo, denunciato – anche qui con scarsi effetti politici.

L’arte rimane nel museo lo spettacolo di un’immagine intoccabile, il cui valore simbolico è significato dal vetro che la divide fisicamente da noi e dal biglietto che abbiamo accettato di pagare per vederne da lontano le forme. Per contemplarle come puro simbolo dell’artificio, che nell’arte celebra appunto la sua assenza di scopo, la sua libertà assoluta, la libertà dell’artificio per l’artificio insieme a quella del suo artefice, espressione massima della libertà umana di dare forma e significato alla presenza informe della natura.

La vecchia questione “a chi parla l’arte del museo?” che muoveva le avanguardie, avrebbe potuto trovare una risposta soltanto annullando di nuovo la distanza che separa nel museo l’opera da chi la osserva. Ma così facendo, il gesto che incontra (o che si scontra) con l’opera non può che subirne a sua volta l’incantesimo e precipitare nello spazio dell’arte. Più che aggredire l’opera (molte di queste azioni sono peraltro innocue) il gesto che la “colpisce” ne è invece rilanciato ponendo provocatoriamente la domanda su ciò che intendiamo per arte, sul valore che diamo alla bellezza in quanto tale, e sul significato che questa ha per noi. E in questo modo ecco di colpo sospeso anche l’ordine dei valori che il museo dispone diligentemente davanti a noi. Se in tutte le pubblicità del mondo la natura è raccontata come una bellezza, perché è così scontato che quella dell’arte sia da difendere al posto, per esempio, di quella della foresta amazzonica?

Quale ordine di priorità ha diviso la prima bellezza dalla seconda, tanto da costruire intorno a quella dell’arte una fortezza inviolabile? Chi ha imposto una tale decisione? Risposta banale: la nostra cultura, che ha deciso che il solo valore in grado di dare un senso alla vita non può che essere un valore simbolico. Del resto, potrebbe mai esistere una cultura al di fuori del simbolico? Ovviamente no. Solo che la natura è stata destituita dalla modernità a valore simbolico secondario: ciò che essa rappresentava, e che l’“arte” in quanto tecnica ha infine provato di poter sconfiggere, è stato destituito di ogni “sacralità”, mentre è contemporaneamente cresciuto il suo valore simbolico di profitto.

La "vernice" che ricopre il dipinto e che lo cancella simbolicamente dal nostro sguardo, così come la farina sull’auto dipinta da Warhol, mentre vengono inevitabilmente riassorbite dall’arte contro cui si rivolgono, diventando a loro volta simboliche, ci pongono una domanda che l’arte invece non pone, dandola già per risolta, ma che la risposta inevitabilmente punitiva a gesti come questi (che difficilmente possono essere accettati) finisce invece per suscitare: perché qui sull’opera no e là fuori, sulla natura, sì?