Ripensare la creatività con il femminismo
Melania Moltelo

08.01.2022

Ciò che mi interessa è la costruzione di una società in cui la creatività è una condizione di massa e non un dono riservato a pochi eletti, anche se la metà sono donne”, così scrive Silvia Federici in Rimettere il femminismo in piedi, individuando inoltre nella collaborazione una strategia per incrementare efficacemente la potenza delle donne nelle lotte di sottrazione alle logiche borghesi-capitalistiche.

È ancora dal femminismo che derivano numerosi stimoli per ripensare a una liberazione della creatività e mi riferisco, in questo caso, al prezioso archivio della rivista Effe.

Nella sezione dedicata ad “arte e cultura” si può ritrovare la testimonianza di quell’esigenza femminista degli anni Settanta che spingeva le donne a pensarsi come portatrici di una creatività del rifiuto; l’obiettivo delle femministe non era quello di avviare sodalizi con il sistema vigente dell’arte, ma di prenderne le distanze de-costruendo categorie e vocabolari declinati da un’organizzazione patriarcale delle funzioni. 

Alle femministe di Effe era già ben chiaro che la creatività avesse una corrispondenza diretta con una situazione economica e sociale di un certo tipo: le donne, a lungo escluse dalla gestione del potere, si trovavano escluse dalla pratica artistica. Ma come veniva giustificata questa esclusione dalle narrazioni ufficiali? Attraverso raffinati processi di naturalizzazione del dato storico, riconducendo il significato più generale dell’atto creativo a teorie psichiche e attitudinali.

Le donne erano considerate deficitarie di intuizioni dal valore universale e condannate a una sensibilità morbosa e uterina e, in questo senso, carenti del genio che sostiene la realizzazione di opere degne di considerazione.

Le femministe di quegli anni mostravano di avere una concezione dell’arte sovversiva non solo per la propria posizione sociale, ma rispetto alle ideologie dominanti: leggevano la creatività, in una società fondata sulla divisione del lavoro, come ulteriore criterio di separazione. Sul piano psichico essa veniva presentata come un’aspirazione degna di tutti, ma di fatto privilegio di pochi eletti eccezionalmente dotati.

Così le femministe proponevano un superamento radicale di tutte quelle convenzioni e convinzioni volte a esacerbare il carattere competitivo della società per riscoprire la forza della cooperazione. Avevano compreso che la creatività come strumento di tutti era un’ipotesi sovversiva e pericolosa per il mantenimento dei rapporti di forza, motivo per cui la si era nel tempo resa inoperante.

Toccava liberare la creatività e allargarla alle zone umbratili dello spazio sociale, quelle rimaste inespresse nei secoli di complicità assoluta tra espressione artistica e potere.

Il rifiuto espresso in queste analisi minuziose dei miti patriarcali della storia dell’arte è ascrivibile al rifiuto di Carla Lonzi di inserirsi in un mondo progettato da altri – posizione che trova la sua convalida nella scelta di abbandonare la carriera di critica d’arte.

Così come la cultura operaia autentica si elabora non attraverso la rappresentazione piccolo-borghese e si sprigiona a partire da una creatività che la stessa lotta produce, solo nella pratica sociale femminista la cultura femminile sembrava trovare la propria incubazione.

Non si trattava solo di “estendere” la creatività, lasciandone immutati i presupposti elitari, ma di “liberarla” dalla sua concezione e azione auto-referenziale e solipsistica. È un tema che ancora adesso ci riguarda da vicino, dal momento che il sistema dell’arte utilizza tematiche relative al problema delle esclusioni per convalidare interessi spietatamente economici e costruire narrazioni pacificanti. L’incentivazione dell’inclusione è spesso uno stratagemma per convalidare il potere nelle mani dei pochi e sponsorizzare una uguaglianza assolutamente formale.

Dal femminismo si può, invece, ancora ricavare qualche strategia per tentare una storia dell’arte alternativa e ri-collocarsi dal punto di vista dei vinti, lasciando prevalere il lavoro collettivo sull’ideale liberale di un artista come destino privato che si estende sul mondo.

Questo desiderio di riscatto reale, che non si accontenta di uno slogan di lotta neutralizzato dai meccanismi di diffusione sussunti dal capitale, si può esemplificare attraverso una citazione di Clarice Lispector: “tutto il mondo dovrà cambiare, perché io possa esservi inclusa”.