Ribalta Experimental Film Festival
Giovanni Sabattini
Mary, Mary so Contrary, Nelson Yeo

07.06.2021

Il cinema di ricerca abita la soglia del visibile. È a un dipresso dall’invisibile - lo corteggia, ne subisce il fascino, se ne lascia permeare – rimanendo, però, ancorato alla dimensione dello sguardo. Si pensi al gesto originario di Bunuel in Un chien andalou: l’occhio viene reciso, la visione violata, lo sguardo inquietato. La sfida del cinema di ricerca – si pensi anche ad alcune affermazioni tutt’altro che provocatorie di Svankmajer e Aristakisjan – si configura come l’esperienza di un occhio cieco, di uno sguardo che non vede (più): il tentativo – che è stato anche di Brakhage – di riconquistare una prospettiva primigenia sul mondo, espandendo così il dato percettivo (si riprenda in tal senso Expanded Cinema di Youngblood). Manlio Iofrida ha messo in luce, nei suoi studi su Merleau-Ponty e la nozione di istituzione, un’idea di esperienza che ci torna utile qui per definire il carattere di quell’ampliamento delle possibilità percettive di cui parla Youngblood: l’esperienza, come inerenza al mondo, è un campo magmatico in cui le cose – compresa la relazione fra un io e un tu, e ancor prima la relazione fra noi e le cose – vengono ad emergere sperimentalmente. Detto altrimenti, la sperimentazione è la dimensione in cui si configurano – si istituiscono, potremmo dire con Merleau-Ponty – le variazioni dell’esperienza. Queste variazioni non sono altro che l’esperimento incarnato: l’esperienza che si viene a configurare/istituire come la mia esperienza. Un ritaglio rispetto al piano magmatico ed originario – anche se, a rigore, non è mai tale – che è l’esperienza, come muta ed invisibile condizione di ogni nostro esperire/sperimentare.

Il cinema sperimentale, come dimensione precipua della figuralità – mutuo il termine dall’ultimo libro di Pietro Montani, Emozioni dell’intelligenza – che è propria alle immagini in movimento, espande le coscienze, come vuole Youngblood, perché ci permette di vedere al fondo del nostro vedere, in cui il vedere è, ancora, un non-vedere. Il cinema sperimentale, quindi, potremmo dire, è un intra-vedere: sta sulla soglia della visione e del suo fondamento tacito. Intra-vede, cioè traghetta il nostro sguardo dalla visione alla sua assenza - o viceversa. Riprendendo l’immagine con la quale abbiamo iniziato, il cinema sperimentale è il rasoio con il quale Bunuel taglia l’occhio, squarciando la continuità della visione. È l’occhio che uccide non visto di Powell (e Ferrara), è l’occhio-ano di Monteiro (Va e vieni) il blu elettrico di Jarman (Blue), il cinema senza macchina da presa, e molto altro.

Anafora, Igor Imhoff

Al Ribalta Experimental Film Festival – il primo Festival di cinema sperimentale della provincia di Modena, tenutosi a Vignola al Circolo Ribalta e a Savignano sul Panaro al Cinema Bristol – questo genere di cinema ha trovato cittadinanza. Basta scorrere il palmares per rendersene conto: il corto vincitore della Golden Arrow for Best Film Mary, Mary so Contrary di Nelson Yeo (Singapore), è una fantasmagorica ri-configurazione plastica dell’immaginario cinematografico. Giocando a s-montare e ri-montare due classici della storia del cinema, Nelson Yeo rimodula ed amplia la capacità che hanno le immagini di testimoniare il vero: l’esercizio post-moderno di Nelson Yeo, iconoclasta e allo stesso tempo profondamente rispettoso, ci racconta della duttilità che il cinema ha nel (ri)pensare, sempre in maniera nuova, la visione. Stay Awake, Be Ready di Pham Thien An (Vietnam) è un film osceno - almeno così lo avrebbe definito Carmelo Bene. In Stay Awake, Be Ready ciò che più conta è bandito dal quadro angusto del frame, è fuori-scena (in questo senso o-sceno). Il fuori campo - radicalizzato da una virtuosistica scelta registica di Pham Thien An – estremizza l’invisibile presenza di un’assenza che è ben più fondamentale dell’immagine – dai tratti neo-realistici – che ci troviamo a contemplare.

China not China di Richard Tuohy – uno dei grandi maestri viventi del cinema di ricerca, assieme a Michele Sambin, entrambi presenti al Festival con due loro opere – riflette plasticamente sul binomio antinomico di visibile ed invisibile. Sovrapponendo due immagini speculari, in cui Taiwan e Hong Kong si trasfigurano in fantasmi fragili, pronti a svanire, Tuohy mette in scena – o meglio, sottrae dalla scena – il cuore impalpabile e silenzioso di ogni immagine: la luce. È un film in absentia quello di Tuohy – o se volete una particolare metafisica della luce - in cui l’immagine attraversa, davvero, i confini del visibile per conquistare un’inedita no man’s land fra lo sguardo dello spettatore e ciò che è fuori campo: appunto un intra-vedere.

Io ho fissato il fuoco per sempre di Salvatore Insana - concerto polifonico di immagini, suoni e musica – ci ricorda, come voleva Derrida, che l’archivio è un luogo aperto: ri-organizzando, liberamente, le immagini di repertorio dell’AAMOD, Insana invera le immagini, sprigionandone la loro tensione incendiaria - il fuoco della passione politica, il fuoco del cinema, il fuoco degli sguardi.

È la ripetizione di un gesto, eternamente ritornante, senza essere autoreferenziale, a guidare anche Anafora di Igor Imhoff: un passato mitico – quello dei Dauni - che si perde agli albori della pre-istoria, rievocato da «un linguaggio rupestre digitale» ma «arcaico», precisa Imhoff, si impone come lo spazio segnico-immersivo proprio del film. Anafora è «una pittura rupestre animata» al cui centro troviamo una dimensione segnica capace di «incarnare le radici del gesto primordiale […] iterato per proporre il tema del viaggio»: un viaggio che conduce fino al fuoco magmatico del cinema: i suoi (s)confini, laddove il segno si fa ripetizione – anafora per l’appunto – di un gesto originario sempre da riattivare.

Insomma, se un “genio maligno” ci forzasse a sunteggiare, in una battuta soltanto, quanto siamo venuti facendo a Vignola e Savignano, la settimana scorsa, risponderemmo con una domanda: cosa significa sperimentare? Senza la pretesa di avere una risposta in tasca pronta all’uso, possiamo dire che il Ribalta Experimental Film Festival oltre che un Festival di cinema sperimentale è stato un Festival, a suo modo, sperimentale. Anzitutto, perché contro lo Zeitgeist, che ci ha voluto smembrati online, divisi in mille piccoli pixel sugli schermi dei nostri PC, fra riunioni Zoom e video-call varie, abbiamo sempre, anacronisticamente, caldeggiato un Festival fisico in presenza - il 29 e il 30 di maggio ci siamo riusciti.

È stato – meglio, è - un Festival sperimentale perché ha riunito i margini della provincia di Modena - sul confine fra il territorio di Vignola e di Savignano sul Panaro. Il Ribalta Experimental Film Festival è un Festival centripeto perché muovendosi ai margini ha tentato – for us, there is only the triying ci ricorda Eliot – di mirare al centro, alla forza che si muove dai confini (s)conosciuti del cinema. È un Festival sperimentale perché, senza tanti giri di parole, non è stato un Festival perfetto. Non perché non ci siano stati i film che avremmo voluto proporre, anzi c'è stato tutto e forse anche di più di quello che ci saremmo aspettati un anno fa, quando – ancora in lockdown duro - abbiamo iniziato a sognare il Ribalta Experimental Film Festival. A partire dalla presenza costante e tutt’altro che scontata del pubblico, che ha scelto la clausura di una sala buia all’invitante frescura del bel fine settimana.

Il cinema sperimentale è un cinema votato al fallimento, all’atto mancato, all’aporia. Viviamo tempi sperimentali, lo sappiamo tutti. Il Ribalta Experimental Film Festival è nato in questo periodo - e forse non è un caso che sia nato ora, in tempo di crisi - ancora una volta soglie da attraversare, non più geografiche, ma temporali - e con questo periodo si è trovato a dover far i conti, anche fallendo. Tuttavia, crediamo di aver sperimentato tanto in questi mesi, lo abbiamo continuato a fare lungo il fine settimana da poco trascorso, e speriamo di poterlo fare ancora per tanto, tanto tempo.