Ri-politicizzare la sofferenza mentale? Capitalismo, psiche e pandemia
Gianluca Viola

26.11.2021

Se c'è qualcosa di interessante negli scritti di Mark Fisher – i cui lavori, ascrivibili alla galassia accelerazionista, restano tra le cose migliori di questo movimento per molti versi estremamente problematico, sia nella sua declinazione "di sinistra" sia nei risvolti inquietanti che ha assunto la riflessione del fondatore dell'ala "destra" del movimento, Nick Land, con la sua "adesione" all'alt-right e con la sua ripresa di tematiche a sfondo razziale - è certamente la tesi secondo cui i disturbi psichici di cui soffre una parte sempre più consistente dell'umanità nel mondo tecno-capitalista siano riconducibili, in ultima istanza, a condizioni socio-politiche e al progressivo intensificarsi della vita nervosa nelle nostre società.

Naturalmente, ciò non significa che ogni disturbo psichico sia attribuibile ai meccanismi della macchina mitologico-antropologica della tarda modernità capitalista: d'altro lato, l'ampio dilagare di disturbi depressivi e di forme di burn-out non può non essere letto in riferimento alle strutture della società di prestazione, basata su valori di auto-sfruttamento e di spietata competizione.

Nel suo celebre saggio sul Realismo capitalista, il filosofo inglese scrive: "Quello di cui abbiamo bisogno ora è una politicizzazione di disordini assai più comuni: anzi, è proprio il fatto che questi disordini siano diventati comuni che vale da solo la nostra attenzione. (…) La piaga della malattia mentale che affligge le società capitaliste lascia intendere che, anziché essere l'unico sistema che funziona, il capitalismo sia innatamente disfunzionale." (M.Fisher, "Realismo capitalista", Nero, pp. 55-56).

La proposta di una politicizzazione dei disturbi psichici - divenuti clamorosamente sempre più comuni negli ultimi trent'anni - nasce dall'esigenza di reagire al progressivo isolamento a cui una certa forma di psicoterapia – per non parlare della psicofarmacologia e della psichiatria tradizionale – relega ancora oggi molteplici forme di sofferenza psichica, ricondotte alle condizioni individuale dei singoli sofferenti; quella che lo stesso Fisher chiama "generalizzata privatizzazione dello stress".

Se è vero che questo meccanismo può essere in grado di spiegare, prese nella propria singolarità, le radici delle problematiche mentali delle persone che è in grado di esaminare, esso rimane del tutto impossibilitato a dare una risposta alla domanda: perché un così grande numero di disturbi mentali dello stesso tipo si presentano in persone fondamentalmente diverse, con un diverso vissuto, con una diversa storia personale, ma tutte nel contesto della società tecno-capitalista contemporanea?

I dati su cui Fisher basava la propria indagine possono apparire quasi generosi e rassicuranti, se confrontati alla situazione odierna: certamente, la recente pandemia di Covid-19 ha aggravato la situazione – e c'è da sottolineare che ancora non si è in grado di pronosticare, effettivamente, quale tipo di ripercussione psichica possano avere, nel breve e nel lungo termine, e soprattutto su scala globale, i quasi due anni appena trascorsi.

Limitandoci a guardare all'Italia, come ha sottolineato la Società Italiana di Neuro-Psico-Farmacologia, almeno la metà delle persone che hanno subito il contagio, direttamente o indirettamente, manifesta un'incidenza di circa il 42% rispetto a disturbi legati all'ansia, del 28% per quanto riguarda il disturbo post-traumatico, e circa il 32% per i disturbi depressivi – i dati si riferiscono al post-prima ondata.

Ma ciò non è tutto: una delle patologie più diffuse tra i giovanissimi, il deficit dell'attenzione, si è notevolmente accentuata a causa soprattutto delle situazioni di lockdown, che hanno incrementato e praticamente totalizzato l'accesso al mondo virtuale, soprattutto per queste fasce della popolazione; per non parlare, infine, dell'aumento dei casi di depressione e burn-out anche in coloro che, pur non direttamente toccati dall'emergenza, lo sono stati a causa della situazione economica o a causa della situazione sociale d'isolamento.

Perciò, uno dei riferimenti principali degli ultimi scritti di Mark Fisher, il "nostro" Franco Berardi, detto "Bifo", ha parlato di "psicodeflazione", in riferimento alla situazione pandemica - una sorta di collasso psichico collettivo dovuto, da un lato, al rallentamento della vita quotidiana, dall'altro all'aumento vertiginoso della quantità d'informazioni che, specialmente attraverso le reti sociali virtuali, ha letteralmente bombardato la nostra psiche.

In un suo saggio del 2015, pubblicato dapprima in inglese e tradotto in italiano proprio qualche mese fa, Berardi mette in guardia sulle conseguenze psichiche della subordinazione sempre più crescente di quella che egli definisce "congiunzione" - in cui lo scambio significante è legato alla condivisione di pathos, come ad esempio nell'amore o nell'amicizia, fra due organismi che manifestano reciprocamente la propria sensibilità e la propria sensualità - alla "connessione" - in cui l'interazione è resa funzionale dall'appiattimento e dalla codificazione di elementi differenti, che devono preventivamente essere resi compatibili e concatenati in senso macchinico.

Secondo il pensatore bolognese: "Il ciclo produttivo è una fabbrica di sofferenza mentale, epidemia in diffusione costante. La fonte principale della patologia è la competizione nell'area delle relazioni interpersonali, e i sintomi individuali di questa epidemia sono la continua mobilitazione dell'attenzione, la riduzione del tempo disponibile per il piacere, e di conseguenza, la solitudine, la miseria esistenziale, l'ansia, il panico e infine la depressione" (Franco "Bifo" Berardi, "E: la congiunzione", Nero, p. 64).

Il continuo stress a cui l'info-sfera – il tecno-capitalismo divenuto incessante produzione di informazioni – costringe la psico-sfera - incapace di immagazzinare una tale quantità di input e, soprattutto, di mettere in campo strategie di resistenza - produce qualcosa di simile a una deflagrazione della vita psichica, non più in grado di sopportare questa esposizione.

Soprattutto nella situazione pandemica, non ci verrà difficile ammettere che il criterio della connettività, che presiede l'universo virtuale e le reti digitali, ha costituito lo spazio esistenziale della maggior parte degli individui. Ciò è potuto accadere soprattutto poiché proprio l'esposizione all'altro, le forme carnali di congiunzione, sono state messe al bando a causa della pandemia, in quanto veicolo principale dell'infezione.

Ma le forme di isolamento, di progressiva separazione dagli altri e di narcisistico ripiegamento su di sé non sono una conseguenza della pandemia: sebbene questa le abbia accresciute, esse esistevano già da prima nella struttura psicologica della società neoliberista.

Il filosofo Byung-Chul Han così si esprime: "Nel nostro tempo si genera una nuova forma di alienazione. Non si tratta più dell'alienazione dal mondo o dal lavoro, bensì di un'autoalienazione distruttiva, di un'alienazione da se stessi. Questa autoalienazione si verifica proprio nella forma dell'ottimizzazione di se stessi e dell'autorealizzazione" (Byung-Chul Han, "L'espulsione dell'Altro", Nottetempo, p. 54).

A questa forma di auto-sfruttamento e di auto-alienazione è possibile imputare la dilagante epidemia di burn-out e di disturbi depressivi: è ancora una volta alle condizioni socio-politiche ed economiche che è necessario guardare per comprendere non i singoli disturbi, ma piuttosto la crescente quantità ed intensità degli stessi.

La politicizzazione della sofferenza psichica non è del tutto una novità e lo stesso Fisher cita alcuni teorici radicali del Novecento come predecessori: Ronald Laing, Michel Foucault e infine Deleuze-Guattari.

Resta da sottolineare qualcosa di molto interessante che distingue, in qualche modo, le due tesi di Fisher e di Berardi – e, in qualche misura, anche di Han - da quelle degli autori citati: nella loro scrittura aleggia un'angosciosa sensazione di "fine del mondo" e, per quanto non sia proprio il tema centrale della loro trattazione, la crisi ecologica resta qualcosa di assai presente, così come la prospettiva della catastrofe e, addirittura, quella dell'estinzione della specie.

Con questo vorrei dire, in conclusione, che la prospettiva della politicizzazione della sofferenza psichica non sarà efficace - nell'ottica di una critica totale del capitalismo e della società tecnologica neoliberale - se non passerà da un momento ecologico.

Ciò sta a significare che la crisi ecologica – che non coincide unicamente con la crisi ambientale - è anche una crisi della mente e nella mente: l'inquinamento è anche un fatto psichico, come il panorama sinceramente inquietante che ho cercato di tracciare in queste poche righe vuole porre, con una certa urgenza, all'attenzione.