Rappresentazioni, resistenze, realtà: una riflessione su alcune immagini della violenza
Chiara Spaggiari

07.05.2021

Nel 2004 apparvero e circolarono alcune delle fotografie scattate nel carcere americano su territorio iracheno di Abu Ghraib, in cui i soldati statunitensi si fecero riprendere da fotocamere digitali – per lo più compatte di proprietà personale – nell’atto di torturare i detenuti iracheni. Queste immagini sono solo alcune, quelle pubbliche, note e circolate di un dossier secretato, un archivio ombra, che conterebbe un migliaio di foto, insieme a numerosi testi e registrazioni di cui non si sarebbe dovuti venire a conoscenza. La vicenda, fondamentale per le pratiche e le dinamiche della cosiddetta “guerra asimmetrica” o “guerra del terrore” – all’interno della quale queste fotografie vanno comprese – ha innescato uno scandalo che a livello politico, culturale, nonché estetico e mediologico, ha prodotto numerosi contraccolpi.

Innanzitutto, le immagini di Abu Ghraib possono essere intese secondo la definizione di Jacques Rancière come “nude immagini” (tr. it. Il destino delle immagini, 2003). Il filosofo francese conia il termine soprattutto in inerenza alle fotografie presentate durante la mostra a Parigi del 2001 Memoire des camps (a cura di Clément Chéroux), riguardante la sistemazione e la presentazione, nonché la ricostruzione storica e mediologica, delle immagini dei campi di concentramento e di alcune delle conseguenti rielaborazioni visive ed artistiche fino al 1999. Al centro di questa mostra vi erano le “quattro immagini forgiate all’inferno” a cui Didi-Huberman nel 2003 dedica il testo tradotto in italiano Immagini malgrado tutto. Le fotografie del 1944, scattate rischiando la vita vicino alle camere a gas, da alcuni membri del Sonderkommando di Auschwitz, arrivarono alla resistenza polacca all’interno di un tubetto di dentifricio e, ad oggi, sono le uniche immagini rimaste registrate dai deportati dei campi di sterminio in attività. Didi-Huberman sostiene che queste fotografie vadano considerate alla stregua di uno strappo, come «un lembo strappato al reale», che aprendo le possibilità visive e cognitive dell’osservatore, sono in grado di mettere in luce i limiti della costruzione rappresentativa di un mondo che dice il rappresentabile, il comprensibile e predispone l’immaginabile, entro cui sono nascosti questi interstizi di violenza conservativa e positiva.

L’effetto veicolato dalla diffusione di queste fotografie – che nella vicenda dei campi nazisti della Seconda Guerra Mondiale si pone anche in relazione alle immagini scattate nei campi e diffuse dai media dopo la liberazione – è descritto dalla formula di Susan Sontag “epifania negativa”. Nel suo fortunato testo del 1973 tradotto in italiano Sulla fotografia, racconta come le immagini provenienti dal campo di Bergen-Belsen e di Dachau siano state nella sua esperienza motivo di «una sorta di rivelazione, prototipo della rivelazione moderna», per cui, «il primo incontro di un individuo con l’inventario fotografico dell’orrore estremo», ne permetterebbe la realizzazione, cioè la constatazione della sua realtà ed esistenza. Riprendendo le parole di Rancière, tali immagini «contribuiscono a disegnare un nuovo paesaggio del dicibile, del visibile e del fattibile» (tr. it. Lo spettatore emancipato, 2008).

Questa capacità delle immagini di aprire la chiusura di un determinato sistema di rappresentazioni politiche e culturali, di scardinare cioè i limiti e i confini di quella realtà che viene definita nei termini di Rancière come partizione del sensibile (tr. it. La partizione del sensibile. Estetica e politica, 2000), viene innanzitutto dal proprio intrinseco potere di agentività, secondo quella nozione di agency che Alfred Gell diede nel 1998 (tr. it. Arte e agency. Una teoria antropologica). Senza tuttavia soffermarsi su questo nodo teorico che riguarda il fondamento estetico-antropologico delle immagini, occorre, in secondo luogo, notare che la capacità di scardinare il sistema delle rappresentazioni, riguarda la loro stessa costituzione: non sono un raddoppiamento mimetico delle cose, così come non sono trasparenti alla costruzione di codici con cui si dice e si interpreta una rappresentazione sulla superficie dell’immagine.

Le immagini conducono un’alterità inalienabile ed inassumibile, che sta al fondo della rappresentazione come presentazione. Le nozioni dello storico dell’arte francese Louis Marin, riguardo opacità e trasparenza dell’opera pittorica, così come quelle più generali definite dal filosofo Jean-Luc Nancy sottolineano la caratteristica delle immagini di condurre: «la presentazione di un’assenza aperta nel dato stesso – sensibile – dell’opera […] La rappresentazione non è un simulacro: non è la sostituzione della cosa originale – in verità, non si riferisce a una cosa: è la presentazione di ciò che non si riduce a una presenza data e compiuta (o data come compiuta), oppure è la messa in presenza di una realtà (o di una forma) intelligibile attraverso la mediazione formale di una realtà sensibile» (tr. it., Tre saggi sull’immagine, 2002).

È in virtù di questa eterogeneità che si produce uno shock – il Verfremdung-Effekt descritto da Brecht; si opera così una dissociazione, «la rottura di un rapporto tra il senso e il significato, un mondo visibile, un modo di emozionare, un regime di interpretazione e uno spazio di possibilità, la rottura con quei punti di riferimento del sensibile che permettevano di occupare il proprio posto in un certo ordine delle cose» (Rancière 2008).

Questa intrinseca capacità e caratteristica per così dire sovversiva delle immagini ne permette una configurazione intesa come atto di resistenza. Da un lato, l’immagine è essa stessa atto di resistenza, in virtù della propria presenza come alterità inassumibile. E tuttavia, in un altro senso, riguarda l’attività di registrazione stessa delle immagini. Lampante è in questo senso l’atto dei membri del Sonderkommando che nel 1944 hanno scattato quattro fotografie per esprimere e serbare un’immagine malgrado tutto, necessaria, in un contesto di profonda sofferenza e violenza, come risposta, registrazione, apertura «all’ incrocio di due impossibilità – scomparsa prossima del testimone e non rappresentabilità della testimonianza» (Didi-Huberman, 2003). In questo modo l’inimmaginabile, l’imprevedibile, l’incomprensibile, scardinano la costruzione di un sistema di rappresentazioni di un mondo reso ipervisibile dalla predisposizione dei dispositivi e dalla circolazione delle informazioni e delle fonti, attraverso cui si media il potere e si apre lo spazio della governamentalità.

Le immagini di Abu Ghraib si collocano in perfetta continuità con le riflessioni esposte, addirittura portandole all’estremo. In primis, sono immagini necessarie, che scuotono le partizioni stabilite del sensibile, emergendo dai limiti del sistema delle rappresentazioni, dai ripiegamenti del tessuto del reale dominate. Laddove, nel contesto della “guerra del terrore”, le condizioni di possibilità della vittoria giacevano sulla modalità di gestione delle immagini, entro un chiuso regime di ipervisibilità sancito dalla loro oculata diffusione e mediatizzazione, la fuoriuscita di queste fotografie amatoriali assume il senso di uno strappo. Ma, rispetto a quelle del 1944, la loro natura amatoriale e digitale, conferisce loro un’ulteriore carica sovversiva. Tali fotografie si confanno a ciò che descrive Hito Steyerl per cui, l’immagine povera, copia, altamente degradata, che circola e si riproduce velocemente, identifica l’astrazione di un’immagine in quanto è essa stessa idea visiva colta in divenire: «uno straccio o uno squarcio […] proiettata nell’incertezza digitale, al costo della sua stessa sostanza […] che sfida le logiche della proprietà privata, della difesa della cultura nazionale, dello stesso copyright» (In defense of the poor image, 2009).

In seconda istanza, l’atto stesso di aver scattato queste foto, sebbene sia stata ad opera dei carnefici, dei soldati americani, si colloca nella stessa logica per cui appare necessario cogliere un’immagine malgrado tutto. Lynndie England – che all’epoca aveva 22 anni – e Sabrina Harman sono due soldatesse protagoniste di queste immagini, talvolta fotografe, talvolta fotografate, che, attraverso la registrazione ad opera dell’obiettivo fotografico, hanno cercato di costruire una rappresentazione senza cui non sarebbero forse riuscite a padroneggiare la violenza e la paura.

Questa riflessione, tuttavia, non deve essere concepita come una giustificazione per le loro azioni. Un discorso riguardo i modi con cui i soldati ad Abu Ghraib hanno cercato di padroneggiare l’affetto del perturbante, dell’inquietante e del violento deve valutare i perché si è ricorso proprio ad atteggiamenti oppressivi e umiliati nei confronti delle alterità e quale sia il ruolo ricoperto dai media. Allora bisogna considerare le condizioni per cui si sono attuate determinate procedure, rintracciandole entro la dimensione di un reale dominante che dice e predispone il fattibile, l’agibile, il comprensibile, le sue forme e le sue modalità.