Quello che il concetto di biopolitica non può dire
Stefano Righetti

23.04.2022

Sarà necessario, un giorno, rileggere la pandemia da un punto di vista non più neutro, come ha inteso mostrarsi (o ci è stato mostrato) in fin dei conti quello scientifico, ma da un punto vista più propriamente politico. Perché la vicenda Covid-19 esprime in sé, in modo ben diverso a dire il vero da come si è svolto il dibattito su questo tema, il contemporaneo rapporto tra popolazione e governo all’interno del neo-liberismo.

Dal 1 maggio, seguendo l’esempio di altri paesi occidentali, ma adeguandosi in sostanza alla linea del governo Johnson, l’Italia toglierà alcuni degli obblighi precauzionali ancora in essere. L’Inghilterra, che ha cancellato l’obbligo delle mascherine al chiuso, rileva ancora circa trecento morti al giorno per Covid; in Italia, dove la mascherina è ancora in vigore forse solo per pochi giorni, i morti sono attualmente più della metà di quelli inglesi. I sostenitori delle riaperture a tutti i costi e coloro che denunciavano il regime sanitario saranno alla fine accontentati; ma come ho già scritto il loro obiettivo era in fondo lo stesso dei governi, solo più frettoloso.

Il principio di responsabilità individuale a cui le riaperture derogano ogni precauzione è del resto ipocrita se il comportamento del singolo non può comunque evitare il contagio e mette a rischio l’incolumità degli altri. Nondimeno è il principio contemporaneo più in voga e già questo può indurci a una prima riflessione.

Partirei da un fatto del tutto conseguente a quanto ho appena detto e che pare scientificamente accertato: se un principio di responsabilità di tipo volontario non garantisce in nessun modo una protezione generale dal virus, cioè per tutti, a maggior ragione esso non può quindi garantire una protezione per coloro che un gergo già in sé discutibile ha chiamato “i fragili” (anziani, persone malate, immunodepressi, ecc.): cittadini e cittadine che pur vaccinati non possono contare su una protezione efficace, che i vaccini peraltro non garantiscono a nessuno.

Il primo dato che il festeggiamento generale per il ritorno alla normalità ci consegna è perciò il seguente: il ritorno alla normalità implica che sia diventato del tutto normale, oltre che accettabile, che la fascia più “fragile” della popolazione sia messa a rischio perché chi non è fragile possa godere della propria “normalità”. Dove “a rischio” significa, per dire le cose più chiaramente, a rischio della propria salute e, di conseguenza, della propria vita.

Proprio pochi giorni fa la rivista Nature ha pubblicato un report sulla gestione svedese della pandemia che avrebbe dovuto quanto meno garantire ai suoi risultati lo stesso spazio mediatico concesso a chi criticava (con presupposti scientifici dubbi) le restrizioni sanitarie. Il report di Nature accusa di fatto il governo svedese di avere praticato una politica sanitaria che, priva di contenimenti e precauzioni, ha causato la morte delle persone più “fragili”. Secondo il report agli anziani sono state addirittura negate le cure e l’ossigeno nonostante l’ampia disponibilità.

Per quanto le misure del governo italiano siano state per fortuna diverse vale comunque la pena sottolineare che i centosessantamila morti italiani per Covid si sono già trasfigurati nei mesi scorsi in attivo economico per i conti dell’Inps. La spesa pensionistica che la morte per Covid ha permesso di risparmiare sembra infatti oltre il miliardo di euro.

La mortalità per Covid rimane dunque una perdita da un punto di vista (anche in questo caso) solo individuale. Il fatto che nessuno in Europa abbia ancora svolto una ricerca sull’attivo economico che la mortalità della popolazione cosiddetta “fragile” apporta al bilancio delle spese sanitarie e pensionistiche è probabilmente perché a nessun governo interessa che questo dato emerga o entri nel dibattito politico. Motivo per cui la ricerca di Nature è sparita velocemente anche dai titoli dei pochi giornali che l’avevano rilanciata. Invitare in trasmissione il sostenitore di Putin permette di mantenere la chiacchiera del paese a un livello d’intrattenimento senza dubbio meno rischioso.

In ogni caso, va almeno detto che una lettura politica della gestione di Covid-19, come quella che ci consegna il report di Nature, permette di screditare una volta per tutte come inadeguate e fuorvianti tutte le polemiche fin qui sentite sulla biopolitica e sul rischio che lo stato d’emergenza diventasse infine stato d’eccezione, eccetera.

Quelle posizioni, oltre che meramente ideologiche (nel senso negativo del termine) sono state soprattutto incapaci di comprendere che ciò che si andava definendo attraverso le politiche sanitarie per fronteggiare Covid-19 era qualcosa che cadeva semplicemente al di fuori dei parametri concettuali del secolo scorso che si volevano utilizzare per descriverlo. O, per essere più chiari, impiegavano intenzioni che appartenevano a altri contesti storici per contestarle secondo una logica rivolta al passato.

Quel che non si è infatti accettato in nessun modo di vedere è che il principio di cittadinanza non rappresentava e non rappresenta ormai più da tempo né la base di quello che chiamiamo stato né, soprattutto, l’obiettivo delle politiche sociali all’interno del neo-liberismo variamente declinato a est e a ovest. Il concetto di biopolitica applicato all’esempio svedese darebbe infatti luogo (così come ci è stato presentato dai paladini nostrani della libertà) a un cortocircuito teorico. Quale libertà civile (e di quale parte) sarebbe infatti a rischio in quel tipo di gestione?

Il punto è che la cittadinanza, il cittadino, i suoi presunti diritti civili e sociali (questi ultimi peraltro sempre più aleatori) sono ormai all’interno del liberismo soltanto la maschera del suo doppio di valore: il consumatore. Non è dunque più (o non più soltanto) il principio di cittadinanza a ispirare l’azione dei governi ma quello del consumo; non è più il cittadino, con i suoi diritti più o meno riconosciuti, ma il consumatore a definire la base sociale del neo-liberismo. Si tratta di un salto culturale e di valori che è peraltro evidente ormai da lungo tempo e decisivo.

Il principio di cittadinanza è rimasto ormai solo il feticcio mortale della destra declinato in termini sovranisti: sempre più privo di diritti certi in realtà esso non esprime più alcun valore concreto di appartenenza se non astratto e violento. Sul piano della pura gestione del potere, la destra sovranista ha in realtà dimostrato di non avere nulla da offrire al diritto di cittadinanza: le sue misure non hanno espresso, in nessuna parte del mondo, la minima preoccupazione di tutela verso i cosiddetti “fragili”, ma hanno semmai garantito, dietro il principio di libertà e di libera circolazione dei cittadini, gli interessi dell’economia e dei consumi.

Allo stesso modo, la calca dei turisti che ha affollato per Pasqua i centri storici, per lo più senza protezioni e distanziamento, può essere presentata dall’informazione corrente come l’emblema dell’aspirato ritorno alla “normalità”, cioè del ritorno alle gite turistiche, ai ristoranti, agli alberghi e ai negozi di souvenir, il ritorno all’acquisto spensierato e felice, il ritorno al mare e in montagna, nonostante il numero quotidiano di morti.

Poiché il concetto di biopolitica si fonda su un principio di governo ispirato al principio di identità e quindi, per estensione, di cittadinanza (quello, per intenderci, della salvaguardia della popolazione, più e invece che dell’economia) quel concetto si rivela dunque inadeguato per comprendere ciò che guida realmente le scelte politiche nel contesto attuale – a meno che non si aggiorni contemporaneamente il significato del termine biopolitica, ciò che però non sembra avvenuto.

Solo laddove l’economia appare subalterna all’identità dello stato, e dunque in un senso ormai soltanto non-democratico, come per esempio in Cina, il contesto può ancora leggersi nei termini paventati dalla critica biopolitica. Dove il principio di sicurezza si trasforma in reclusione, anzi a maggior ragione in questo caso, ciò avviene assumendo infatti come riferimento (non importa con quale sincerità) valori del tutto differenti da quelli che attengono allo svolgimento dell’attività economica praticata in condizioni di “normalità”: vale a dire, in condizioni in cui il normale riferimento ai valori di cittadinanza può accompagnarsi più o meno apertamente a quelli dell’economia, ma da cui in realtà rimangono ben distinti.

Il principio di cittadinanza è infatti fondato su una necessaria salvaguardia della popolazione, poiché esso intende la popolazione come il fondamento dello stato. Il consumismo si basa sulla salvaguardia della produzione e dello scambio di merci: senza di questi il mantenimento dell’economia che garantisce l’effettivo funzionamento statale sarebbe impossibile e, di conseguenza, la sicurezza stessa dello stato verrebbe meno, dal momento che questo (oltre e più che con la propria popolazione e con il proprio territorio) coincide ormai soprattutto, se non esclusivamente, con la propria economia.

Per questo tipo di politica occorre dunque salvaguardare soprattutto l’attività economica in grado di garantire la doppia dimensione insieme della produzione e del consumo e (potremmo aggiungere con malizia, ma è quello che il report di Nature ci suggerisce) “liberarsi” di tutti coloro che un residuo principio di cittadinanza pretenderebbe ancora di garantire per via costituzionale: i “fragili” appunto, i non-utili o quelli che il principio economico individua in modo essenziale più come un “costo” che come una fonte potenziale di reddito.

Non aver capito che l’attuale condizione del neo-liberismo è sempre più definita da questo passaggio di interesse dal cittadino al consumatore è stato l’errore (imperdonabile) che ha relegato le proteste per le libertà negate dalle misure sanitarie nell’ambito del meramente reazionario. O, a voler essere concilianti, del secolo scorso.