Quando il potere chiama il potere: le narrazioni sulla mafia
Vincenzo Scalia

21.05.2022

Il trentesimo anniversario della strage di Capaci suscita la necessità di sviluppare una riflessione sulla mafia, che, partendo dalle rappresentazioni della criminalità organizzata, approda dentro i rapporti del potere, fino a mettere in luce come, la cosiddetta “emergenza mafiosa”, arrivi a legittimare quello stato d’eccezione (Schmitt, 1982; Agamben, 2003) di cui si nutrono i rapporti di potere esistenti.

L’immaginario contemporaneo pullula di plurime rappresentazioni delle mafie: romanzi, pellicole cinematografiche, talk shows, trasmissioni ad hoc, serie televisive pullulano di discussioni e rappresentazioni sulle mafie. A partire dalle “Piovre” che raccontavano le mafie siciliane, si è arrivati ai telefilm sulla camorra e ad autori pop come Roberto Saviano (Dal Lago, 2009). Anche nella moda, le magliette che inneggiano a Pablo Escobar, incarnano l’ambiguità delle rappresentazioni del crimine presso la società contemporanea, dove l’insicurezza si sovrappone alla proiezione delle pulsioni trasgressive individuali e collettive (Young, 2008).

Le narrazioni mafiose sono riconducibili a tre filoni specifici, che chiamano in causa e consolidano la categoria dell’emergenza. Il primo filone, sviluppato da Diego Gambetta (1992), è quello del contagio. Secondo questa metafora medica, le mafie attecchirebbero solo nei contesti sociali affetti da una malformazione quale l’assenza della fiducia pubblica, che ostruisce il formarsi dello Stato moderno e delle economie di mercato, sfociando nel ricorso alla protezione privata. I contesti sani possono essere soggetti a infiltrazione mafiosa solo attraverso il contagio, ovvero l’afflusso di corpi esterni all’interno di una società sana. Per reprimere le malformazioni e prevenire il contagio, si rende di conseguenza necessaria l’azione dello Stato, dotato possibilmente di poteri speciali, da corpi di polizia scelti a magistrati specializzati, per finire al 41 bis.

Al contagio si sovrappone l’arretratezza, ovvero il secondo filone. Giornalisti, cineasti, politici, accademici (Paoli, 2000), si concentrano sui rituali di affiliazione mafiosi, allo scopo di stabilire la connessione tra la primordialità dei codici e delle identità e l’efferatezza delle mafie, che sarebbero un residuo di un passato arcaico.

Questa rappresentazione, se da un lato solletica l’immaginario collettivo, dall’altro sorvola sul fatto che le fraternities universitarie americane o la massoneria, di cui fanno parte i membri più esclusivi delle élites, attingono a rituali cruenti. Inoltre, le atrocità non costituiscono un correlato esclusivo della criminalità organizzata, bensì anche degli Stati più potenti e ad economia avanzata. Dall’arretratezza, si sviluppa quel panico morale (Cohen, 1971) che legittima ulteriormente il ricorso a misure emergenziali, volte sia ad estirpare l’arretratezza, sia ad approntare una risposta repressiva calibrata sull’efferatezza del nemico.

La categoria dell’arretratezza apre la strada a quella del potere occulto. Se le mafie sono società segrete, i cui membri sono vincolati da rituali primordiali, avranno facilità ad operare in combutta con altri attori occulti: la massoneria, i servizi deviati, i politici corrotti, gli imprenditori collusi, finendo per costituire quel polipartito (Caselli-Lo Forte, 2020) che minaccerebbe le fondamenta dello Stato democratico e dell’imprenditoria “pulita”, oltre a quelle della convivenza civile. Un nemico così insidioso, camaleontico, pervasivo, richiede una risposta fondata su di un apparato di leggi speciali, superprocure e superpoliziotti.

Tutte queste narrazioni, intercambiabili e integrabili, narrano di mafie, ma non narrano le mafie. Innanzitutto, perché non esiste una separazione netta tra economie legali e illegali (Ruggiero, 1996). All’interno del circuito economico globale, il flusso di domanda di beni e servizi risulta pienamente integrato. Le droghe, il gioco d’azzardo, lo smaltimento di rifiuti tossici, il caporalato per contenere il costo del lavoro, i prestiti monetari, sono richiesti da attori legali per ragioni sia edonistiche sia utilitaristiche, come quelle di aggirare il fisco, le norme di sicurezza, i contratti di lavoro, la legislazione ambientale.

Sul fronte politico, inoltre, il controllo del territorio da parte dei mafiosi, non si pone sempre in rotta di collusione con quello ufficiale. La regolamentazione della criminalità di strada, la prevenzione e la repressione dell’attivismo politico (Block, 1983; Bobbio, 1993), risultano funzionali al mantenimento dell’ordine pubblico e al controllo di quelle classi pericolose (Chevallier, 1977; Benigno, 2015) che possono mettere a repentaglio i rapporti di forza all’interno della società.

Lungi dal costituire un’anomalia, le mafie si connotano per essere un’articolazione del potere economico e politico all’interno della società contemporanea, in particolare nel contesto italiano. I rapporti con gli altri gruppi di potere sono fluidi, basati sulla convivenza, sulla complementarità, sulla conflittualità, secondo dei contesti e degli interessi del momento.

Le rappresentazioni della mafia dominanti, dunque, si connotano per essere narrazioni sul potere messe in atto dal potere stesso. Si tratta di un processo circolare, all’interno del quale i meccanismi di potere, i rapporti di forza tra i gruppi sociali esistenti, ne escono rafforzati. Innanzitutto, perché la costruzione di un nemico legittima la continua deriva dei principi dello stato del diritto, fino a comportare, quanto meno nel caso italiano, un ribaltamento tra la regola e l’eccezione, con quest’ultima che oramai rappresenta la normalità. Le paure, il securitarismo, finiscono per essere rafforzate dalle rappresentazioni siffatte.

In secondo luogo, attorno alle narrazioni mafiose, si sviluppa un apparato mediatico-imprenditoriale orientato alla costruzione del consenso attraverso l’audience di massa. Le organizzazioni antimafia, gli scrittori, gli accademici, i palinsesti televisivi imperniati sulle mafie, si sono radicati a tal punto da rendere quasi impossibile l’emergere di altri punti di vista, fino a dettare la politica al governo, come la vicenda delle “scarcerazioni facili” durante il lockdown dimostra. Infine, a partire da questa imprenditoria antimafiosa, si alimentano le strategie di management strategico della reputazione messe in atto dalle organizzazioni criminali stesse.

Le minacce dei Casalesi a Saviano, i commenti di Graviano sul presentatore Giletti, oltre che minacce, rappresentano il tentativo da parte dei mafiosi di acquisire visibilità sia presso i loro sodali che presso il pubblico, indipendentemente dalla loro reale incidenza nelle dinamiche di potere. Di sicuro, alimenta quel discorso circolare sul potere cui si accennava prima, e che si rende sempre più urgente disarticolare se si vuole realmente combattere la mafia. Possibilmente, sostituendo l’emergenza con la lotta dal basso, come nella storia più autentica del movimento antimafia (Santino, 2000).


BIBLIOGRAFIA

Agamben, G. (2003), Stato d’eccezione, Torino: Bollati Boringhieri.

Benigno, F. (2015), La mala setta, Torino: Einaudi.

Block, E. (1983), East side, west side, Trenton, NJ: Transaction.

Bobbio, N. (1993), Il futuro della democrazia, Torino: Einaudi.

Caselli, G., Lo Forte, G. (2020), Lo Stato illegale, Bari: Laterza.

Chevallier, L. (1977), Classi laboriose e classi pericolose a Parigi nel XIX secolo, Bari: Laterza.

Cohen, S. (1971), Folkdevils and moral panic, London: Sage.

Dal Lago, A. (2009), Eroi di carta, Roma: Manifestolibri.

Gambetta, D. (1992), La mafia siciliana. Un’industria della protezione privata, Torino: Einaudi.

Paoli, L. (2000), Fratelli di sangue, Bologna: Il Mulino.

Ruggiero, V. (1996), Economie sporche, Torino: Bollati Boringhieri.

Santino, U. (2000), Storia del movimento antimafia, Roma: Editori Riuniti.

Schmitt, C. (1982), Le categorie del politico, Bologna: Il Mulino.

Young, J. (2007), The vertigo of late modernity, London: Sage.