Promenade in Biennale
Enrico Camprini
Sara Enrico, The Jumpsuit Theme, 2022, ph. Marco Cappelletti. Courtesy La Biennale di Venezia

04.06.2022

Per spendere qualche parola e fare alcune fugaci considerazioni sulla 59. Biennale di Venezia si potrebbero certo assumere numerosi punti di vista. La mostra principale curata da Cecilia Alemani, Il latte dei sogni, che si sviluppa nelle sedi dei Giardini e dell’Arsenale presenta tutti i crismi di quello che oggi può dirsi evento culturale. Uno statement preciso e assai sintetico che configura un cappello tematico accattivante – benché forse persino datato da un punto di vista storico-critico – e, soprattutto, tremendamente alla moda, condito da scelte che ammiccano a una certa radicalità e, sotto alcuni aspetti, per nulla banali e senz’altro convincenti. Intendiamoci, di per sé nulla di male. Lo stesso si può dire della Biennale precedente, peraltro anche meno leggibile sul profilo espositivo ma che vantava la presenza di alcuni nomi di assoluta importanza per la scena contemporanea globale.

Il punto – e parlo ovviamente a titolo personale – è la difficoltà nel prendere posizione in merito a una manifestazione la cui specificità tende a perdersi man mano che si tenta di addentrarvisi. Quali gli intenti – critici, teorici o narrativi che siano – alla base di un’operazione espositiva in cui spesso si ha l’impressione che le sole concordanze di genere e etnia possano validare la coesistenza di molti lavori in mostra? (Fatto che traspare anche dalle cosiddette “capsule”, micro-esposizioni che dovrebbero fornire chiavi di lettura trans-storiche di ciò che contengono).

Dunque, non voglio – proprio perché non mi riesce – addentrarmi in analisi specifiche della mostra, come peraltro già è stato fatto con legittimi elogi e critiche assai puntuali1, quanto cogliere pochi elementi isolati di quello che è in fondo un grande evento mondano che attrae e respinge al tempo stesso. Certamente un’opportunità di conoscenza, di aggiornamento, ma ben lontana da proclami utopistici e programmatici, da innovazione, men che meno da militanza artistica e critica.

Allora, vale forse la pena di trattare la visita agli spazi di Giardini e Arsenale come una passeggiata, una promenade che ovviamente nulla ha a che vedere con la sua origine settecentesca in Francia, ma che nondimeno, nella strabordante ricchezza espositiva, ci permette di cogliere alcuni elementi e chiavi di lettura interessanti. Anzitutto, una spiccata predilezione per il monumentale.

Lo si nota subito, inevitabilmente, all’inizio dei percorsi di mostra con le imponenti opere di Katharina Fritsch e Simone Leigh, in cui ci imbattiamo rispettivamente all’ingresso di Giardini e Arsenale: lavori la cui efficacia – a scanso di equivoci – non si riduce soltanto al loro forte impatto visivo, ma che rappresentano giocoforza l’overture di una kermesse (senza dimenticare le partecipazioni nazionali) in cui spesso ci si imbatte in diverse declinazioni dell’idea di monumentalità.

Oltre alle due sculture citate va ricordato l’enorme arazzo di Igshaan Adams, più di 10 metri di materiali eterogenei per un’immagine di notevole forza visiva e concettuale, ma anche – allargando il campo – le installazioni ambientali di Kapwani Kiwanga e Barbara Kruger.

Louise Bonnet, Pisser Triptych, 2021–2022, ph. Roberto Marossi. Courtesy La Biennale di Venezia

Alla tendenza monumentale di questa Biennale fa il paio un altro elemento davvero difficile da non notare anche per chi si accontenta di vivere l’evento alla stregua di una promenade, mettendo tra parentesi il tipo di sguardo che la specificità di una mostra dovrebbe richiedere: la presenza massiccia di lavori di stampo tradizionale. Il latte dei sogni è un’esposizione a trazione chiaramente pittorica e scultorea, ed è in questo contesto per certi versi sorprendente che balzano all’occhio diverse opere che danno una buona ragione al mio girovagare tra Giardini e Arsenale.

I dipinti di Cecilia Vicuña e Paula Rego (la cui sala giustifica da sola una visita); ma anche le opere di Simone Fattal nel giardino delle sculture progettato da Carlo Scarpa, sebbene non si possa dire che lo spazio non aiuti. I lavori di Hannah Levy mettono invece in scena un’idea di scultura, certo tutt’altro che démodé, fatta di ibridazioni neosurrealistiche mai tuttavia fini a se stesse, ma dotate di coerenza e logica formale come oggetti ambigui e capaci di imporre la loro presenza allo spettatore, stimolandolo a una fruizione anche tattile (ahimè non consentita).

A proposito, invece, di monumentalità e pittura, il trittico di Louise Bonnet è quel genere di opera che non può non imporre una sosta più prolungata del solito nella promenade in Arsenale. Pisser Tryptich, non è solo un inno allo scatologico, alla metafora creativa e produttiva di scarti e deiezioni, quanto una celebrazione della pittura figurativa in sé, del grande formato, dei volumi e del potere evocativo, tattile e scultoreo delle due dimensioni. Passata la sbornia per il grande quadro di Bonnet, basta procedere poco oltre per imbattersi nell’installazione site specific di Giulia Cenci, Dead Dance.

Situata all’esterno, una sua modalità ideale di fruizione – in questo caso senza alcuna ironia – è proprio la promenade. Un percorso di 150 metri sotto una struttura da cui pendono parti di corpi, umani e animali, realizzati tramite fusione in alluminio di componenti meccaniche di provenienza agricola o automobilistica. Al netto della tendenza all’ibrido e al chimerico e di sottotesti sociopolitici non sempre leggibili, l’opera riesce ad autonomizzarsi proprio grazie allo spazio che abita e che contribuisce a rimodulare in primo luogo in chiave estetica.

Insieme a quello di Cenci, il lavoro di altre due artiste italiane in mostra riesce a interrogare lo sguardo di uno spettatore alle volte confuso. Una per medium, entrambe ai Giardini, Chiara Enzo e Sara Enrico hanno declinato in pittura e scultura la questione del corpo in modi differenti. La prima con dipinti di piccolo formato, sostanziali close up su carne, pelle, ferite e dettagli, installati a muro come costellazioni da decifrare o ricomporre: il risultato è una resa pittorica di grande forza, l’imposizione di una visione ravvicinata, la coincidenza tra pelle del quadro e pelle raffigurata.

Sara Enrico, dal canto suo, declina il tema del corpo attraverso sculture in cui la sensazione percettiva della carne è data dalla tensione reciproca di materiali dall’opposta natura: cemento colato in involucri di tessuto che restituiscono la fisionomia di corpi monchi, arti a riposo, inutilizzati e inutili. Ma in questo caso l’elemento di maggiore interesse non consiste solo nell’opera in sé, ma anche nel fatto che The Jumpsuit Theme è esposto in una sala insieme a lavori di Carla Accardi e Jacqueline Humphries, pittrice americana la cui produzione si concentra sull’utilizzo di segni derivati dal digitale, materializzandoli.

L’accostamento innesca sorprendenti rimandi formali, soprattutto con le tele di Accardi, che danno l’impressione netta di uno spazio dedicato a riflessioni linguistiche, sulle potenzialità visive del puro segno: così anche i lavori di Enrico, in questa collocazione, da corpi dimessi diventano possibili sintagmi in un alfabeto di rimandi in codice.

Naturalmente potrei fare altri esempi di lavori importanti e scelte di spessore (il video dell’ateniese Janis Rafa è forse tra i migliori in mostra all’Arsenale), data l’ampiezza della manifestazione. Ma si tratterebbe di un’enumerazione priva di senso date le premesse. Il latte dei sogni propone un’esperienza certamente per più versi stimolante, apre a una dimensione – come da statement – alternativa al nostro reale, a un universo femminile e fluido, neosurrealista, postcoloniale e ibrido.

Tuttavia, questa dimensione appare, a dire il vero, piuttosto rassicurante e priva della carica critica che forse ci si poteva attendere. In quella che definirei un’enclave dell’altrove conviene forse farsi una passeggiata. Non certo una promenade come quella che Diderot racconta nel suo Salon del 1767, dove il suo perdersi nei dipinti di Joseph Vernet era quantomeno credibile; ma almeno un tentativo di immersione, laddove possibile, fuori contesto e fuori campo. Rimanere in compagnia delle opere che nonostante tutto riescono a parlare liberamente.





1   https://www.finestresullarte.info/recensioni-mostre/recensione-il-latte-dei-sogni-biennale-di-venezi...