Prima del diluvio: l’ecosocialismo, sfida politica attuale
Michael Löwy

08.07.2021

Prefazione


Il diluvio del XXI secolo

James Hansen, ex direttore del Goddard Institute della nasa negli Stati Uniti, uno dei massimi esperti mondiali sulla questione del cambiamento climatico – l’amministrazione Bush aveva cercato, invano, di impedirgli di rendere pubbliche le sue diagnosi – scrive nel primo paragrafo del suo libro pubblicato nel 2009:

Il pianeta Terra, la creazione, il mondo in cui si è sviluppata la civiltà, il mondo con le norme climatiche che conosciamo e con spiagge oceaniche stabili, è in pericolo imminente. L’urgenza della situazione si è cristallizzata solo negli ultimi anni. Ora abbiamo una chiara evidenza della crisi [...]. La conclusione sorprendente è che il continuo sfruttamento di tutti i combustibili fossili della Terra minaccia non solo i milioni di specie sul pianeta, ma anche la sopravvivenza dell’umanità stessa – e i tempi sono più brevi di quanto pensassimo1.

Dalla prima edizione della nostra piccola raccolta (2011), la crisi ecologica si è considerevolmente aggravata. Scienziati di tutto il mondo, negli ultimi rapporti ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change) lanciano l’allarme: la CO2 continua ad accumularsi nell’atmosfera, i ghiacciai dei poli stanno collassando, il livello del mare si sta alzando, gli incendi e gli uragani si moltiplicano. Se non cambiamo radicalmente direzione nel prossimo decennio, difficilmente riusciremo a prevenire l’innalzamento della temperatura del pianeta al di sopra di 1,5 °C (rispetto al periodo preindustriale). Ora, una volta superato questo limite, è probabile che si attivi un processo di reazione a catena, che porta a un aumento di 2, 3 o più gradi, in una spirale catastrofica. A differenza dei “collassologi”, che proclamano con rassegnato fatalismo che i giochi sono fatti, che il disastro è inevitabile e che tutto quello che possiamo fare è “adattarci”, noi crediamo che si debba combattere per evitare il “collasso”. Come diceva Bertolt Brecht: “Chi lotta rischia di perdere, chi non lotta ha già perso”.

Questa lotta ha un avversario preciso: il sistema capitalista, responsabile della crisi ecologica. Questa osservazione è ampiamente condivisa. Nel suo libro incisivo e ben informato Comme le riches détruisen la planéte, Hervé Kempf presenta, senza eufemismi o finzioni, gli scenari del disastro che si sta preparando: oltre una certa soglia, che rischiamo di raggiungere molto più velocemente del previsto, il sistema climatico potrebbe scaldarsi in modo irreversibile; non si può più escludere un cambiamento improvviso e brusco, che farebbe oscillare la temperatura di parecchi gradi, raggiungendo livelli insopportabili.

Di fronte a questa constatazione, confermata dagli scienziati, e condivisa da milioni di cittadini del tutto il mondo consapevoli della tragedia, cosa fanno i potenti, l’oligarchia di miliardari che domina l’economia mondiale? “Il sistema sociale che attualmente governa la società umana, il capitalismo, resiste ciecamente contro i cambiamenti che è indispensabile sperare se vogliamo preservare all’esistenza umana la sua dignità e la sua promessa”. Una classe dirigente predatrice e avida ostacola qualunque desiderio di trasformazione effettiva; quasi tutte le sfere di potere e di influenza sono soggette al suo pseudo-realismo che sostiene che ogni alternativa è impossibile e che l’unica strada immaginabile è quella della “crescita”. Questa oligarchia, ossessionata dalla competizione eccessiva – come ha già mostrato Thorstein Veblen – è indifferente al degrado delle condizioni di vita della maggior parte degli esseri umani e cieca di fronte alla gravità dell’avvelenamento della biosfera2.

Come aveva previsto Marx in L’ideologia tedesca, le forze produttive stanno diventando forze distruttive, creando il rischio di distruzione fisica per decine di milioni di esseri umani – uno scenario peggiore degli “olocausti tropicali” del xix secolo, studiati da Mike Davis. Alcuni ambientalisti affermano che il principale fattore responsabile della crisi ecologica è la crescita esponenziale della popolazione mondiale. Rappresentante emblematico di questo neomalthusianesimo, l’autore americano Paul Ehrlich si dichiara, nel suo libro The Population Bomb (1968), a favore di un regime autoritario in grado di imporre un limite drastico alla natalità negli Stati Uniti, così come alle sanzioni economiche contro i paesi che non accetterebbero di adottare a loro volta restrizioni demografiche... Ci sono diverse varianti di questo discorso: alcune assumono la forma di una sorta di ecofascismo, altre, pur respingendo questo tipo di conclusioni politiche, insistono nondimeno sulla demografia come fonte principale dei problemi ecologici.

La risposta a questi argomenti è semplice: i principali responsabili delle emissioni di gas serra e della distruzione ambientale sono i paesi industrializzati del Nord (Stati Uniti, Canada, Unione Europea, Giappone ecc.) e la Cina; i paesi africani a forte crescita demografica sono invece gli ultimi nella lista degli ecocidi. Studi scientifici dimostrano che i paesi più ricchi (dove la demografia è stagnante) hanno prodotto l’80% di emissioni di CO2 dal 1751, mentre gli ottocento milioni di abitanti dei paesi più poveri sono responsabili solo dell’1%3. Ovviamente il pianeta ha dei limiti e non può reggere una crescita illimitata. Ma uno degli effetti del processo di transizione ecologica sarebbe la stabilizzazione demografica, grazie all’eliminazione della povertà, all’educazione sessuale per i giovani e alla generalizzazione del diritto delle donne a disporre del proprio corpo (contraccezione, aborto libero e gratuito ecc.).


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I “decisori” del pianeta – miliardari, manager, banchieri, investitori, ministri, parlamentari e altri “esperti” – motivati ​​dalla razionalità limitata e miope del sistema, ossessionati dagli imperativi di crescita ed espansione, dalla lotta per le quote di mercato, dalla competitività, dai margini di profitto e redditività, sembrano obbedire al principio proclamato da Luigi xv: “Dopo di me il diluvio”. Il diluvio del xxi secolo rischia di assumere la forma, come quella della mitologia biblica, di un inesorabile innalzamento delle acque, che annega sotto le onde le grandi città della civiltà umana: Hong Kong, Shanghai, Londra, Venezia, Amsterdam, New York, Rio de Janeiro...

In prima linea in questa guerra del capitale contro la natura ci sono i “negazionisti del clima”, i rappresentanti diretti dell’oligarchia fossile (petrolio, carbone, gas di scisto, sabbie bituminose ecc.) e dell’agroalimentare: Donald Trump e Jair Bolsonaro. Quest’ultimo, salito al potere, ha dato il via libera allo smantellamento della foresta amazzonica, denunciando le comunità indigene come nemiche dello “sviluppo”. Per celebrare questa nuova congiuntura, le figure dell’agrobusiness (allevamento, soia ecc.) hanno proclamato un “giorno di fuoco”, contribuendo così ai sinistri incendi che negli ultimi mesi hanno devastato il più grande “serbatoio di carbonio” terrestre del pianeta, in grado di assorbire parte del CO2 atmosferico. Si è sviluppato un falso dibattito tra Emmanuel Macron e Jair Bolsonaro: bisogna difendere il “diritto di intervento” delle potenze europee in Amazzonia o proclamare, contro ogni previsione, la “sovranità” del Brasile sulla foresta? Il vero problema è la solidarietà internazionale dei popoli con coloro che si battono per difendere l’Amazzonia: tribù indigene, contadini senza terra, comunità di base, ambientalisti.

Lo spettacolare fallimento delle conferenze internazionali illustra l’inerzia dei governi “ragionevoli”, che non negano il riscaldamento globale. Le misure adottate finora dai poteri capitalisti più “illuminati” – protocollo di Kyoto, pacchetto europeo di azione per il clima, con i loro “meccanismi di flessibilità” e i loro mercati per le quote di inquinamento – dipendono, come dimostrato dall’ecologo belga Daniel Tanuro, da una “politica poco lungimirante” incapace di affrontare la sfida del cambiamento climatico; lo stesso vale, a maggior ragione, per le soluzioni “tecnologiche” preferite dai governi europei: l’“automobile elettrica”, gli agrocombustibili, il clean coal (o carbone pulito) e questa energia meravigliosa, pulita e sicura: il nucleare (questo prima di Fukushima)...

La più grande progresso, sul terreno delle conferenze internazionali, è stato la COP 21 di Parigi (2015): i governi partecipanti hanno riconosciuto la necessità di non superare il limite di 1,5 °C e ciascuno ha annunciato pubblicamente le riduzioni di emissioni che si impegnava a raggiungere. Un’impresa formidabile, purtroppo offuscata da due “dettagli”: 1) in assenza di ogni controllo o sanzione, nessun paese ha mantenuto le sue promesse (tranne alcuni piccoli paesi africani). 2) Se tutti i paesi mantenessero i loro impegni, la temperatura salirebbe comunque più di 3,3 °C (secondo l’ipcc)...

La recente conferenza delle Nazioni Unite sul clima, convocata a New York nel 2019, illustra in modo ancora più caricaturale l’enorme inerzia del sistema (capitalista): nessun progresso, discorsi vuoti, business as usual. In questa occasione, Greta Thunberg, la giovane ribelle svedese, ha tenuto un discorso storico, che resterà negli annali dell’ecologia combattiva. Rivolgendosi ai governi presenti, ha detto: “Come osate? Avete rubato i miei sogni e la mia infanzia con le vostre parole vuote. Eppure io sono una persona fortunata. Le persone soffrono, le persone stanno morendo. Interi ecosistemi stanno crollando, siamo all’inizio di un’estinzione di massa e tutto ciò di cui parlate sono i soldi e le favole della crescita economica infinita? Come osate!”

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Una parola sul disastro nucleare di Fukushima. Per la seconda volta nella sua storia, il popolo giapponese è vittima della follia nucleare. Non si conoscerà mai tutta l’estensione del disastro, ma è evidente che si tratta di un punto di svolta. Nella storia dell’energia nucleare ci sarà un prima e un dopo Fukushima.

Dopo Chernobyl, la lobby nucleare occidentale aveva trovato una soluzione: era il risultato di una gestione burocratica, incompetente e inefficiente propria del sistema sovietico. “Questo non poteva accadere da noi”. Cosa vale questo argomento oggi, quando in questione è il fiore all’occhiello dell’industria privata giapponese? I media hanno denunciato l’irresponsabilità, l’impreparazione e le bugie della Tokyo Electric Power Company (Tepco) – con l’attiva complicità degli organismi di controllo e delle autorità locali e nazionali – più preoccupata della redditività che della sicurezza. Questi fatti sono indiscutibili, ma a insistere troppo su questo aspetto si rischia di perdere di vista l’essenziale: l’insicurezza è insita nell’energia nucleare. Il sistema nucleare è fondamentalmente insostenibile, gli incidenti sono statisticamente inevitabili. Prima o poi si verificheranno altre Chernobyl e Fukushima, causate da errori umani, malfunzionamenti interni, terremoti, incidenti aerei, attentati o eventi imprevisti. Per parafrasare Jean Jaurès, si potrebbe dire che il nucleare porta la catastrofe come la nuvola porta l’uragano.

Non sorprende quindi che il movimento antinucleare si stia rimobilitando su larga scala, con alcuni risultati positivi, come ad esempio in Germania. Tuttavia, la reazione della maggior parte dei governi, specialmente in Europa e negli Stati Uniti, è quella di rifiutarsi di uscire dalla trappola nucleare. Si cerca di calmare l’opinione pubblica con la promessa di una “seria revisione della sicurezza dei nostri impianti”. La medaglia d’oro per la cecità nucleare merita di essere attribuita al governo francese di Nicolas Sarkozy, uno dei cui portavoce, l’onorevole Henri Guaino, aveva dichiarato: “L’incidente nucleare in Giappone potrebbe favorire l’industria francese la cui sicurezza è un marchio di fabbrica”. No comment...

I nucleocrati – un’oligarchia particolarmente ottusa e impermeabile – affermano che la fine del nucleare significherebbe un ritorno alla candela o alla lampada a petrolio. La semplice verità è che solo il 13,4% dell’elettricità mondiale è prodotta dalle centrali nucleari. Si può perfettamente farne a meno... È possibile, anzi probabile, che, sotto la pressione dell’opinione pubblica, in molti paesi, si ridimensionino considerevolmente i progetti deliranti di espansione illimitata dell’industria nucleare e della costruzione di nuove centrali. Ma è lecito temere che questo possa essere accompagnato da una corsa precipitosa verso i combustibili fossili più “sporchi” (com’è avvenuto in Germania): carbone, petrolio offshore, sabbie bituminose, gas di scisto, con il risultato di un ulteriore e rapido aumento delle emissioni di gas serra. Il primo passo nella battaglia socio-ecologica per una transizione energetica è rifiutare questo falso dilemma, questa scelta impossibile tra una bella morte radioattiva o una lenta asfissia dovuta al riscaldamento globale. Un altro mondo è possibile!


Ecosocialismo, il rosso e il verde

Qual è dunque la soluzione alternativa? Penitenza e ascesi individuale, come sembrano proporre tanti ecologisti? La drastica riduzione dei consumi? Daniel Tanuro osserva lucidamente che la critica culturale del consumismo proposta dagli obiettori della crescita è necessaria, ma non sufficiente. Dobbiamo affrontare il modo di produzione stesso. Solo una presa in carico collettiva democratica consentirebbe allo stesso tempo di soddisfare i reali bisogni sociali, di ridurre l’orario di lavoro, di eliminare la produzione inutile e dannosa, di sostituire i combustibili fossili con l’energia solare. Il che implica delle profonde incursioni nella proprietà capitalista, un’estensione radicale del settore pubblico e della gratuità, in breve un piano ecosocialista coerente4.

L’ecosocialismo è una corrente politica fondata su una constatazione essenziale: la salvaguardia degli equilibri ecologici del pianeta, la conservazione di un ambiente favorevole alle specie viventi – compresa la nostra – è incompatibile con la logica espansiva e distruttiva del sistema capitalista. La ricerca della “crescita” sotto l’egida del capitale ci condurrà presto – nei prossimi decenni – a una catastrofe senza precedenti nella storia dell’umanità: il riscaldamento globale.

La premessa centrale dell’ecosocialismo, implicita nella stessa scelta del termine, è che il socialismo non ecologico è un vicolo cieco e che l’ecologia non socialista è incapace di affrontare le sfide attuali. Il suo progetto di associare il “rosso” – la critica marxista del capitale e il progetto di una società alternativa – e il “verde”, la critica ecologica del pruduttivismo, non ha nulla a che vedere con le coalizioni governative cosiddette “rosso-verdi”, tra la socialdemocrazia e alcuni partiti verdi, attorno a un programma social-liberale di gestione del capitalismo. L’ecosocialismo è quindi una proposta radicale – vale a dire, che mira alla radice della crisi ecologica – che si distingue tanto dalle varianti produttiviste del socialismo del xx secolo – che sia la socialdemocrazia o il “comunismo” in stile stalinista – quanto dalle correnti ecologiste che, in un modo o nell’altro, si adattano al sistema capitalista. Una proposta radicale che mira non solo a trasformare i rapporti di produzione, dell’apparato produttivo e dei modelli di consumo dominanti, ma anche a creare un nuovo paradigma di civiltà, in rottura con le fondamenta della civiltà capitalista industriale occidentale moderna.

Una delle principali obiezioni all’ecosocialismo è l’urgenza: non c’è tempo per aspettare l’avvento dell’ecosocialismo; occorre mobilitarsi per misure nel quadro del capitalismo. Tuttavia, gli ecologisti non propongono affatto che si “aspetti”! Si mobilitano qui e ora per ogni misura che blocchi la dinamica distruttiva del sistema: questo è ciò che Naomi Klein chiama Blockadia. Qualunque vittoria parziale – la cancellazione del disastroso progetto dell’aeroporto di Notre-Dame-des-Landes, il blocco del gasdotto xxl negli Stati Uniti – è altamente positiva in quanto rallenta la corsa verso l’abisso e infonde fiducia nell’azione collettiva. Ciò che gli ecosocialisti rifiutano è l’illusione del “capitalismo sostenibile”. Un programma come il Green New Deal può avere un ruolo positivo, nella misura in cui rompe con le politiche neoliberiste e tenta di spezzare il tallone di ferro dell’oligarchia fossile. Ma non lo vediamo come l’obiettivo ultimo: si tratta piuttosto di un momento in un processo di contestazione anti-sistema sempre più radicale.


Origini dell’ecosocialismo

Non è questa la sede per sviluppare una storia dell’ecosocialismo. Tuttavia, ricordiamo alcuni passaggi. (Ci occuperemo principalmente della corrente ecomarxista, ma nell’ecologia sociale di ispirazione anarchica di Murray Bookchin, nella versione di sinistra dell’ecologia profonda di Arne Naess e in alcuni scritti degli “obiettori della crescita” come Paul Ariès, si troveranno delle analisi radicalmente anticapitaliste e delle proposte alternative vicine all’ecosocialismo.)

L’idea di un socialismo ecologico – o di un’ecologia socialista –iniziò realmente a svilupparsi solo a partire dagli anni Settanta, in forme molto diverse, negli scritti di alcuni pionieri del pensiero “rosso e verde”: Manuel Sacristán (Spagna), Raymond Williams (Inghilterra), André Gorz e Jean-Paul Déléage (Francia) e Barry Commoner (Stati Uniti). Il termine “eco socialismo”, apparentemente, iniziò a essere usato solo a partire dagli anni Ottanta, quando nel Partito dei Verdi tedesco apparve una corrente che si definva “ecosocialista”; i suoi principali portavoce sono Rainer Trampert e Thomas Ebermann. In questo periodo apparve il libro Per un comunismo democratico. L’alternativa in cui Rudolf Bahro sviluppa una critica radicale del modello sovietico e della Germania orientale in nome del socialismo ecologico. Nel corso degli anni Ottanta, il ricercatore nordamericano James O’Connor teorizza la sua concezione del marxismo ecologico e fonda la rivista “Capitalism, Nature, Socialism”, mentre Frieder Otto Wolf, un deputato europeo e dirigente della sinistra del Partito dei Verdi tedesco, e Pierre Juquin, un dirigente comunista convertito alle prospettive rosso-verde, scrivono insieme il libro Europe’s Green Alternative (Black Rose, Montreal 1992), una sorta di tentativo di manifesto ecosocialista europeo. Parallelamente, in Spagna, intorno alla rivista di Barcellona “Mientras Tanto”, discepoli di Manuel Sacristán come Francisco Fernandez Buey stanno sviluppando una riflessione ecologica socialista. Nel 2003, una corrente marxista rivoluzionaria presente in molti paesi, la Quarta Internazionale, ha adottato durante il suo congresso il documento La rivoluzione socialista e l’ecologia, d’ispirazione chiaramente ecosocialista. Due anni prima, Joel Kovel e io abbiamo pubblicato un Manifesto ecosocialista internazionale, che è stato utilizzato come riferimento per la fondazione, a Parigi nel 2007, della Rete ecologista internazionale – che durante il Forum Sociale Mondiale a Belém (Brasile), distribuirà la Dichiarazione ecosocialista di Belém, un nuovo manifesto ecosocialista sul riscaldamento globale. Aggiungete a questo il lavoro di John Bellamy Foster e dei suoi amici della nota rivista di sinistra americana “Monthly Review”, che rivendicano una rivoluzione ecologica con un programma socialista; gli scritti delle femministe ecosocialiste Ariel Salleh e Terisa Turner; la rivista “Canadian Dimension”, animata dagli ecosocialisti Ian Angus e Cy Gornik; le riflessioni del rivoluzionario peruviano Hugo Blanco sul rapporto tra indigenismo ed ecosocialismo; il lavoro del ricercatore belga Daniel Tanuro sui cambiamenti climatici e i vicoli ciechi del “capitalismo verde”; ricerche di autori francesi vicini al movimento per la giustizia globale come Jean-Marie Harribey; gli scritti del filosofo (discepolo di Ernst Bloch e André Gorz) Arno Münster; le reti ecosocialiste del Brasile e della Turchia, le conferenze ecosocialiste che iniziano ad essere organizzate in Cina, ecc.

Quali sono le convergenze e i disaccordi tra l’ecosocialismo e la corrente della decrescita, la cui influenza in Francia non è trascurabile? Ricordiamo innazitutto che questa corrente, ispirata dalle critiche alla società dei consumi (Henri Lefebvre, Guy Debord, Jean Baudrillard) e al “sistema tecnico” (Jacques Ellul) è lungi dall’essere omogenea; è un movimento plurale conteso da due poli piuttosto distanti: da un lato gli antioccidentalisti tentati dal relativismo culturale (Serge Latouche), dall’altro gli ecologisti repubblicani universalisti (Vincent Cheynet, Paul Ariès).

Serge Latouche è senza dubbio il più controverso dei “discrescisti”. Certo, una parte dei suoi argomenti è legittima: demistificazione dello “sviluppo sostenibile”, critica alla religione della crescita e del progresso, richiedono un cambiamento culturale. Ma il suo rifiuto in blocco dell’umanesimo occidentale, del pensiero illuminista e della democrazia rappresentativa, il suo relativismo culturale e il suo smisurato elogio dell’età della pietra sono molto discutibili. Quanto alla sua denuncia delle proposte di Attac (Jean-Marie Harribey) per i paesi del Sud – sviluppare le reti di adduzione dell’acqua, le scuole e i centri di cura – come “etnocentriche”, “occidentaliste” e “distruttrici dei modi di vita locali”, è difficilmente sostenibile. Infine, il suo argomento per non parlare di capitalismo – che sarebbe come sfondare una porta aperta dal momento che questa critica “è già stata fatta e ben fatta da Marx” – non è seria: è come se non avessimo bisogno di denunciare la distruzione produttivista del pianeta poiché Gorz ha già fatto questa critica, “e l’ha fatto bene”... Bisogna tuttavia riconoscere che in un’opera pubblicata nel 2011, Vers une société d’abondance frugale, Serge Latouche proclama che la decrescita è contraria al capitalismo e che può essere considerata come una sorta di “ecosocialismo”.

La sinistra decrescista è rappresentata in particolare dalla rivista “La Décroissance”. Si possono criticare le illusioni “repubblicane” di Cheynet e Ariès ma questo secondo polo ha molti punti di convergenza – nonostante le polemiche – con gli altermondialisti di Attac, gli ecosocialisti e la sinistra della sinistra francese (Partito della sinistra, Nuovo partito anticapitalista): estensione della gratuità, predominanza del valore d’uso sul valore di scambio, riduzione dell’orario di lavoro e delle disuguaglianze sociali, allargamento del “non mercato”, riorganizzazione della produzione secondo i bisogni sociali e protezione dell’ambiente.

In un libro recente5, Stéphane Lavignotte traccia un bilancio del dibattito tra “oppositori della crescita” ed ecosocialisti. Bisogna privilegiare la critica dei rapporti sociali di classe e la lotta alle disuguaglianze, o la denuncia della crescita illimitata delle forze produttive? Lo sforzo deve concentrarsi su iniziative individuali, sperimentazioni locali, semplicità volontaria, o sul cambiamento dell’apparato produttivo e della “megamacchina” capitalista? L’autore rifiuta di scegliere e suggerisce invece di unire questi due approcci complementari. La sfida, a suo avviso, consiste nel combinare la lotta per l’interesse ecologico di classe della maggioranza, vale a dire dei non proprietari del capitale, e la politica delle minoranze attive per un cambiamento culturale radicale. In altre parole, riuscire – senza nascondere le inevitabili divergenze e disaccordi – una “composizione politica” che riunisca tutti coloro che sanno che un pianeta e un’umanità vivibili sono contraddittori con il capitalismo e il produttivismo, e che cercano la via per uscire da questo sistema disumano.

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Ricordiamo, per concludere questa breve prefazione, che l’ecosocialismo è un progetto per il futuro, un’utopia radicale, un orizzonte del possibile, ma anche e inseparabilmente – come abbiamo visto sopra – un’azione attorno a obiettivi e proposte concrete e immediate. L’unica speranza per il futuro sta in mobilitazioni come quella di Seattle nel 1999, che ha visto la convergenza di ambientalisti e sindacalisti, nonché la nascita del movimento altermondialista; o le proteste di 100.000 persone a Copenhagen nel 2009, attorno alla parola d’ordine “Cambiamo il sistema, non il clima”; o la Conferenza popolare sui cambiamenti climatici e i diritti della Madre Terra, a Cochabamba (Bolivia) nell’aprile 2010, che ha riunito più di trentamila delegati di movimenti indigeni, contadini ed ecologisti di tutto il mondo; e soprattutto, la formidabile mobilitazione dei giovani nel settembre 2019 contro il cambiamento climatico. Ispirati dalle critiche radicali di Greta Thunberg ai “decisori” accecati dal denaro e dal mito della “crescita”, quattro milioni di giovani e meno giovani sono scesi nelle strade in oltre duecento paesi. In questa lotta intrapresa in molti paesi, soprattutto in America del Nord e del Sud, le comunità indigene giocano un ruolo determinante nella resistenza ai progetti ecocidi del capitale. E tra gli indigeni, le donne – prime vittime dell’avvelenamento delle acque e della distruzione delle foreste – sono spesso in prima linea. Ricordiamo l’esempio di Berta Caceres, fondatrice nel 1993 (all’età di 20 anni) del Consiglio cittadino delle organizzazioni dei popoli indigeni dell’Honduras (Copinh), che ha guidato la resistenza contro i megaprogetti delle multinazionali che confiscano l’acqua ai popoli indigeni. Dopo aver ricevuto il Premio internazionale Goldman per l’ambiente, è stata assassinata nell’aprile 2016 da sicari al servizio degli affaristi. I mandanti non sono stati arrestati. Oggi, Berta Caceres è un punto di riferimento e un’ispirazione per un’intera generazione di giovani donne combattenti.

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Questo libro non è un’esposizione sistematica delle idee o delle pratiche ecosocialiste, ma più modestamente il tentativo di esplorarne alcuni aspetti, terreni ed esperienze. Rappresenta, ovviamente, solo l’opinione del suo autore, che non coincide necessariamente con quella di altri pensatori o reti che si rifanno a questa corrente. Non mira a codificare una nuova dottrina né a fissare una qualche ortodossia. Una delle virtù dell’ecosocialismo è proprio la sua diversità, la sua pluralità, la molteplicità di prospettive e approcci, spesso convergenti o complementari – come dimostrano i documenti pubblicati in appendice, che provengono da diverse reti ecosocialiste – ma anche, a volte, divergenti o addirittura contraddittori.

Questa raccolta include una serie di testi di riferimento sull’ecosocialismo internazionale. Il primo, il Manifesto ecosocialista internazionale (2001), è stato scritto da Joel Kovel e da me. La Dichiarazione ecosocialista di Belém (2009) è stata scritta da Joel Kovel, Ian Angus, Danielle Follett e da me. Infine, Copenaghen 12 aprile 2049 è stata scritta da me e illustrata da Sille Stenesen Hansen, una giovane artista del Partito socialista dei lavoratori danesi.


Michael Löwy

Parigi, aprile 2020



1 James Hansen, Storms of my Grandchildren. The Truth About the Coming Climate Catastrophe and our Last Chance to Save Humanity, Bloomsbury, New York 2009, p. ix.

2 Hervé Kempf, Comment les riches détruisent la plaète, Le Seuil, Paris 2007. Si veda anche il suo altro libro altrettanto interessante: Pour sauver la planète, sortez du capitalisme, Le Seuil, Paris 2009.

3 Cfr. Ian Angus, Facing the Anthropocene, MR Press, New York 2016, p. 229.

4 Daniel Tanuro, L’impossible capitalisme vert, La Découverte, Paris 2010. Cfr. la raccolta collettiva, curata da Vincent Gay, Pistes pour un anticapitalisme vert, Syllepse, Paris 2010, con contributi di Daniel Tanuro, François Chesnais, Laurent Garrouste e altri. Una critica argomentata e precisa del capitalismo verde si trova anche nei lavori degli eco-marxisti nordamericani: Richard Smith, Green Capitalism: the God that Failed, in “Real-World Economics Review”, 56, 2011, e John Bellamy Foster, Brett Clark e Richard York, The Ecological Rift, Monthly Review Press, New York 2010.

5 Stéphane Lavignotte, La décroissance est-elle souhaitable?, Textuel, Paris 2010.


© Michael Löwy , Ecosocialismo. L'alternativa radicale alla catastrofe capitalista, Ombrecorte 2021