Politiche dell’immagine, politiche dei corpi
Viviana Vacca
  • 25.06.2022
CAPITOLO 2

Politiche dell’immagine, politiche dei corpi

2.1. Un po’ di compassione: immagine e misericordia


Era davvero l’espressione di un bambino che è stato punito duramente e non sa per cosa e perché gli stavo davanti e l’animale mi guardava, mi scesero le lacrime – ma erano le sue lacrime; per il fratello più amato non si potrebbe fremere più dolorosamente di quanto non fremessi io, inerme davanti a quella dolorosa sofferenza (…) Oh mio povero bufalo, mio povero, amato fratello, ce ne stiamo qui entrambi impotenti e torbidi, e siamo tutt’uno nel dolore, nella debolezza, nella nostalgia. Intanto i carcerati correvano operosi qua e là intorno al carro...; il soldato invece ficcò le mani nelle tasche dei pantaloni, se ne andò in giro per il cortile ad ampie falcate, sorrise e fischiettò, fra sé una canzonaccia. E tutta questa grandiosa guerra mi passò davanti agli occhi.1

Una goccia d’esperienza allarga lo spazio visivo dal chiuso della cella nel carcere di Braslavia nella quale Rosa Luxemburg scrive una delle sue ultime lettere all’amica Sonja Liebknecht. E’ nell’ordine dell’incostanza, dell’apparizione che si produce un po’ di conoscenza, di pensiero, attraverso la compassione, nel punto in cui è il mio dolore a non essere chiuso in un rapporto binario ma a procedere per cerchi spiraliformi verso l’orizzonte creaturale del noi, del nostro dolore.

Le politiche degli affetti sono politiche della compassione, oggetto misterioso2 che non dovrebbe destare il sospetto di una distanza consolatoria. Quella ha ancora a che fare con i rapporti di forza, di potere, con i gesti della commiserazione. La compassione non si prova, la compassione sta nel tra, c’è in relazione, nel riconoscimento imprevedibile della fragilità. La compassione, in altre parole, sta nella modalità con cui si guardano le cose e gli umani negli eventi. Tano D’Amico parlerebbe, a tal proposito, dello sguardo mendicante3 che aspetta l’immagine vivente come si aspetta una domanda con il suo carico di senso. La compromissione è, piuttosto, nel gesto del dare per scontato il noi quando ci si pone davanti al dolore degli altri4.

Susan Sontag aveva sottolineato, in un testo ormai classico5 come l’immagine fotografica, nello shock dell’arresto del movimento, conservasse una relazione privilegiata con il potenziale della memoria a differenza della ripetitività televisiva, pur rimarcando la differenza incolmabile tra la sofferenza reale e la compassione suscitata dalla rappresentazione del dolore nello scenario della sovraesposizione mediatica delle immagini. A trent’anni di distanza, però, rimarca il diniego contro i margini di confusione tra il vedere e il guardare che trascina con sé e dà per scontato il dolore di un noi non pensato, esperito nella rappresentazione fotografica della guerra e della violenza.

La domanda della Sontag investe la relazione della fotografia con la memoria nell’esperienza di chi guarda: rappresentare il dolore svuota l’immagine fino a ridurla a un simulacro, rimando del passato? Cosa ci dicono le immagini rispetto a un dolore dei corpi che vengono rappresentati? In altri termini, quando soffrono le immagini? La dimensione del noi è quella relazionale con gli altri, la questione del rapporto politico, affettivo, emotivo tra chi assiste a un dolore non più presente nei corpi fisici ma nel movimento di visibilità, di circolazione riattivato dalle immagini fotografiche. In tal senso, si dovrebbe sospettare, diffidare dell’instabilità emotiva legata ai sentimentalismi compassionevoli che sembrerebbero ridurre ogni rievocazione del passato a un impasse del pensiero.

La postura delle immagini di Tano D’Amico ribaltano tale relazione: la compassione è di quelle immagini, è un movimento costruito insieme alla vita dei volti, dei corpi, delle umanità che, insieme al fotografo, investono la Storia con le loro storie di singolarità, puntate al futuro e ci raccontano di un dolore, di un rispetto che è nostro. Niente a che vedere con i meccanismi ciechi della società dello spettacolo- che spesso mistificano il fascino rappresentato dal dolore esibito come un abisso che ci riguarda quando ci poniamo dal lato del vedere più primitivo- all’interno del quale circolano, come gocce di compassione, le immagini viventi, immagini dette altrimenti di misericordia. Guardare è una scelta, una presa di posizione delle immagini che non rappresentano il dolore, la sconfitta, la violenza ma ci sono nel bel mezzo di un conflitto e aprono nuove piste della visione.

L’immagine nuova, diversa, irrompe dagli strappi della storia quando c’è conflitto. Quando si mette in discussione un regime, quello che cambia per primo è il modo di guardare. (…) E gli sembrò di aver sempre rincorso quel suo appunto a matita. Il senso della sua vita scritto con la matita. (…) Si rendeva conto il fotografo, che solo chi cerca, chi ha bisogno di quei lampi, può vederli, e forse coglierne qualcuno (…) Ne aveva bisogno per vivere, e li cercava senza pretendere alcunché, privo di certezze, come un mendicante.6

Il fotografo sta in mezzo alla visione dei suoi appunti a matita, in spazi-tempo determinati dalle politiche di soggettivazione delle immagini, in luoghi di bottega deputati all’educazione dello sguardo nei confronti di queste zone interstiziali nelle quali è la misericordia a posizionarsi contro il potere di ogni rappresentazione. La misericordia porta la traccia della duplicità, del cuore e dei miseri, una sacralità preservata dalle derive della memoria e del sentimentalismo. D’altra parte, “Ogni presente è determinato da quelle immagini che gli sono sincrone: ogni adesso è l’adesso di una determinata conoscibilità. Con esso la verità si carica di tempo fino a esplodere.”7

E’ un’abitudine dei minatori portare un uccellino in gabbia nelle profondità delle cave con la funzione di segnalatore del livello del grisou, gas inodore e incolore che, saturando i pozzi, porta a esplosioni non altrimenti prevedibili. Le ali dell’uccellino iniziano a fremere come il fremito del tempo che dovremmo ascoltare, percepire, per anticiparne la furia catastrofica. Veder venire la catastrofe- direbbe Didi Huberman- che “lascia senza voce- perché non ci si vuole credere, perché la si dice ‘inimmaginabile’-, ed è proprio per questo che non la vediamo (il suo processo, implacabile, del resto è assai più difficile da trasporre in racconto). Ma ciò che conta è riconoscere che non vi è mai una catastrofe: in ogni momento catastrofico si darebbe la combinazione, il conflitto segreto o la sovrapposizione di almeno due catastrofi.8. Tali sono le immagini viventi con il loro potenziale divinatorio e carico di futuro.

La guerra, a differenza della catastrofe, ha una forma di narrazione esclusiva- il racconto epico- e si lascia vedere. La catastrofe ha un duplice regime interno di visibilità, un punto in cui le immagini bruciano, un serbatoio segreto, un sintomo.9 Nell’ordine mimetico di tipo platonico, le immagini non sono che un velo che ricopre il reale dunque lo rappresenta; sul confine mobile, le immagini sono viventi in quanto lacerazioni di quel reale che non viene rappresentato ma strappa la stessa relazione tra oggetto da vedere e soggetto che vede.10 

La misericordia non è l’oggetto visto e rappresentato dall’immagine: non ci sono oggetti, nelle immagini di misericordia, ma piuttosto singolarità. Non la miseria, ma i miseri che attendono insieme nell’immagine e nello sguardo che sono capaci di cambiare. Come per la compassione, il movimento vitale della misericordia non si ferma nell’istante di un’immagine fotografata. Gli sguardi, i volti, i corpi dei miseri attendono che una storia venga raccontata nell’incontro con il nostro sguardo, secondo un prima e soprattutto un dopo dell’immagine che si inserisce sul cambiamento. La conflittualità inaugurata dalle immagini si inserisce nei processi di cambiamento trasformandone le modalità di guardare quegli stessi eventi che crea. Una potente fragilità che le immagini di misericordia ci spingono a guardare, a partecipare, ad attivare secondo nuovi circuiti ma che, spesso, viene tradita.

Misericordia e tradimento formano il movimento sotterraneo alla visibilità di primo grado delle immagini ma sono anche i due rimandi concettuali che coinvolgono una sacralità laica che si estende oltre i rituali già codificati. La misericordia e le sue immagini nascono contro il potere, ci ripete Tano D’Amico.

Il fotografo si trova con i corpi misericordiosi nelle immagini costruite insieme, non li cerca ma ne coglie le vite, anche quando morti ma non dimenticati- sono Carlo Giuliani, una bambina zingara uccisa dalla polizia, Giorgiana Masi, sono i feriti che hanno tutti un nome proprio- e mai traditi. Il creatore di immagini di misericordia non tradisce l’alleanza con le immagini perché queste ultime non sono rappresentazione pubblicitaria o narrazione al servizio del potere. Il tradimento è dalla parte dei sistemi di potere che sottraggono la chiamata alla vita delle immagini per renderne funzionale un potenziale alle proprie narrazioni, distruggendole e obliterando ogni possibilità di archivio, cioè di memoria.



1 Rosa Luxemburg, Un po’ di compassione, Adelphi, Milano 2007

2 Gianluca Solla, 15 tesi su un oggetto misterioso chiamato compassione https://www.doppiozero.com/materiali/compassione/15-tesi-su-un-oggetto-misterioso-chiamato-compassio...

3 D’Amico, Fotografia e destino, cit.

4 Susan Sontag, Davanti al dolore degli altri, trad. it P. Dilonardo, Nottetempo, Milano 2002.

5 Susan Sontag, Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società, trad. it. E. Capriolo, Einaudi, Torino 2004.

6 Tano D’Amico, Misericordia e tradimento. Fotografia, bellezza, verità, Mimesis, Milano 2021, p.10

7 Walter Benjamin, Opere Complete IX. I Passages di Parigi, Einaudi, Torino 2000, p.157.

8 Georges Didi Huberman, Sentire il grisou, trad. it. F. Fogliotti, Orthotes, Napoli 2021, p. 31.

9 Georges Didi Huberman, L’immagine brucia in Andrea Pinotti e Antonio Somaini (a cura di), Teorie dell’immagine. Il dibattito contemporaneo, Raffaello Cortina, Milano 2009, p. 253.

10 Georges Didi Huberman , Davanti all’immagine. Domanda posta ai fini di una storia dell’arte, trad. it. M. Spadoni, Mimesis, Milano 2016, p. 263.


©Viviana Vacca,  Immagini che vivono. Politica e fotografia in Tano D'Amico, Ombrecorte 2022