Politica, libertà, polis
Antonio Camerano
01.01.2023
Il testo che segue è tratto dal volume di Stefano Berni e Antonio Camerano, L'alchimia del potere. La filosofia politica di Hannah Arendt, edito da Mimesis.

Per mettere a fuoco il tema riteniamo opportuno partire da che cosa la politica non è, quasi in contrappunto ai testi che sono stati raccolti e pubblicati da Ursula Ludz con il titolo Che cos’è la politica?. Ciò anche a conferma di quanto l’argomento sia rilevante nel pensiero di Arendt e di quanto esso costituisca, con il grappolo di concetti che implica, la rivisitazione della tradizione del pensiero politico occidentale. Intendiamo con ciò segnalare che la pensatrice di Hannover rifocalizza, nell’ambito della teoria politica, lo sguardo sugli eventi, confrontandosi con le novità che la vita associata riversava sulla scena. Tra essi per citarne alcuni tra quelli rilevanti: il totalitarismo, i fatti di Ungheria del 1956, i Pentagon papers, il processo ad Eichmann.

La teoria politica di Arendt riserva una gran parte della sua attenzione alla comparsa della massa sul proscenio pubblico e sul ruolo che essa viene ad assumere, rilevandone un doppio effetto: la quasi contemporanea sparizione della politica dalla vita delle comunità in ragione dell’isolamento quale condizione imprescindibile dell’esistenza massificata; l’accentuarsi del senso di deresponsabilizzazione: sentimento connesso al sentirsi intrappolati e parti di un ingranaggio che riduce ed azzera spazi di responsabilità e autonomia. Se “quello che è andato storto è la politica”, intesa quale partecipazione alle cose del mondo e al suo aspetto pubblico, questo si deve riconnettere all’inabissamento della stessa e alla sua sostituzione con la cura della necessità biologica e la fabbricazione: aspetti centrali per la condizione umana antipolitica dell’animal laborans e impolitica dell’homo faber.

Questa trasformazione consentì che la politica, elemento connesso all’azione e al potere come suo svolgersi di concerto, fosse privata dalla dimensione sempre potenziale e partecipativa per divenire prassi permanente di rappresentazione di interessi. Anche quei soggetti ‒ come fu “il movimento del lavoro” che nel suo momento aurorale sembrava combattere “una battaglia politica integrale” ‒ finirono conglobati nella sfera della politica quale fu intesa da partiti, professionisti e burocrati degli Stati, anche di quelli democratici. In altre parole si compì, o si insediò in modo durevole, quella valorizzazione della stabilità nella vita della comunità politica che, se è un bene secondo la visione platonica, non lo è nel pensiero di Arendt. In questo senso si concretizzò lo stringente complesso di credenze che portò a identificare la politica come una tecnica riservata ai possessori del sapere quali erano i filosofi.

Con tale operazione Platone, “accanto all’idea di libertà espressa dalla polis a cui lo stesso si era opposto, introdusse nel mondo una nuova idea di libertà”. In queste considerazioni si mostra una prima metamorfosi della politica. Essa si trasformò da momento primigenio di apertura ai molti dello spazio pubblico della trasparenza e della doxa, per approdare alla restrizione a pochi partecipanti e discussioni specialistiche. In tale spostamento la politica perde tutto il carico dei temi a cui Arendt l’ha sempre associata: pluralità, contingenza, azione, ma anche confronto e discussione di “tutti i problemi esistenziali”. Nell’arena pubblica venne a perdersi quel senso che sostanziava i termini di isonomia e isegoria. Un movimento spaziale dall’agorà (spazio per tutti), all’Accademia (spazio per alcuni); in breve il passaggio dalla polis alla apolitia: l’indifferenza nei confronti della politica. Questo definirsi di una nuova esperienza, che supera e imbriglia l’originaria partecipazione all’agone ‒ spazio pubblico per eccellenza ‒ consente di affermare che il contrario della politica è la sua privazione il cui punto massimo è raggiunto nel totalitarismo, rendendo difficile individuare dei punti intermedi tra esso e la politica come intesa nella modernità. In tal senso condividiamo l’affermazione di Abensour secondo cui l’attenzione di Arendt, l’alternativa che ella pone dopo le tragiche esperienze totalitarie, non è tra il totalitarismo come “un’escrescenza del politico” o la democrazia liberale, ma “tra totalitarismo o la politica”. Basti rileggere le pagine di On Revolution per riscontrare come la politica non debba essere sacerdozio di professionisti politici né si esaurisce nell’esercizio di partecipazione al giorno dell’elezione dei rappresentanti. Questo a voler evidenziare che la politica, in Arendt, indica certamente un polo negativo, nel quale l’esperienza intesa come spontaneità viene eradicata. Ma contemporaneamente mette in guardia da una facile individuazione di un lato comodamente positivo da riscontrare in una qualche forma di democrazia rappresentativa.

La sua idea di politica è quella di una tensione permanente, interna alla comunità, che nell’attraversarla la spinge verso momenti istituzionali consolidati, i quali si segnalano contemporaneamente per il loro carattere di esperienze sempre in questione. Nel pensiero di Arendt ci paiono identificabili due momenti in cui la politica prende forma in seno al mondo degli affari umani. Questi si possono individuare come periodi di “raffreddamento” e di “accelerazione”. La natura di questo comporsi e definirsi, affievolirsi e innescarsi, a buon diritto, possiamo esprimerla con l’utilizzo dell’immagine di una sorgente magmatica: le sue opalescenze e striature definiranno di volta in volta ciò che sarà la polis.

I momenti di consolidamento si collocano sull’asse concettuale ‘romana’ della politica. Quelli dinamici intorno alla spinta ‘greca’ che la vita conferisce alle faccende umane nel contesto della polis.

La triade romana di autorità, religione, tradizione (anche per la sua parziale riattualizzazione nella rivoluzione americana), sembra intervenire a sostenere le scelte di lungo periodo della comunità. Ciò crediamo sia dovuto anche alla radicata convinzione di Arendt che il detto romano: potestas in populus, auctoritas in senatus, operasse in profondità in certi momenti nella vita collettiva. La matrice greca: agora, doxa, partecipazione, memoria di atti eroici, orienta invece la parte dinamica ed acosmica del pensiero della politica come ci viene offerto dalla sua Teorica. In questa doppia tematica oppositiva che corre in tutti gli scritti, si inseriscono anche concetti che da soli basterebbero ad identificare altri presupposti che vivificano una riflessione non pacificata né definitiva. Da una parte infatti troviamo: inizio, nascita, evento, contingenza, pluralità; dall’altro, quasi a co-intessere il reale, sensus communis, giudizio, pensiero. Nel fenomeno della politica che così si produce, viene ad assumere a nostro avviso, una rilevanza fondamentale la concettualizzazione della disobbedienza civile. Test che consente di decretare “se le istituzioni di libertà siano abbastanza flessibili da cogliere la sfida del cambiamento senza che intervengano una guerra civile o una rivoluzione”.

La materia della politica è rintracciata da Arendt già nei poemi omerici. Questi assumono il luogo di momenti di formazione e insediamento della proposta arendtiana. In quelle storie l’autrice riscontra la forza dell’inizio e trova almeno due caratteristiche che sono riproposte con frequenza nel corso dell’intera sua opera. La prima è la comparsa dell’imparzialità nella narrazione dei grandi eventi da parte dei maggiori storici antichi. La seconda, altrettanto rilevante, è la aurorale esperienza politica che la guerra di Troia procurò ad alcuni di quegli eroi che vi parteciparono. Fu come se nella polis, “gli uomini che tornarono dalla guerra di Troia avessero desiderato rendere permanente lo spazio di azione che era scaturito dalle loro gesta e sofferenza, impedire che esso perisse con la loro dispersione ed il loro ritorno ai luoghi domestici”.

L’incitamento alla difesa del muro eretto a difesa delle navi da parte dei Greci, nel momento in cui i troiani sembrano soverchiarne le forze, trova collocazione nel tema della politica quale risulta nel pensiero di Arendt. In quell’incitamento ‒ a masse di uomini differenti anche per coraggio ‒ emerge il comando che in guerra produce la necessità di salvaguardare un bene superiore, che ordina, determina e fa tacere le diverse pretese che le opinioni e le discussioni ingenerano. Con la sua comparsa si annienta il rapporto e la relazione tra pari: momento costitutivo e imprescindibile nel connotarsi della politica nel pensiero arendtiano.

È il ritorno delle navi da Troia che comporta, per gli uomini che hanno vissuto quei momenti di confronto e azione, la volontà di ritrovare l’esperienza della partecipazione alla discussione delle cose che riguardano tutti con la stessa parità e la stessa garanzia di incolumità. Questa salvaguardia che si manifestava sotto la tenda di Agamennone (per i Prìncipi che vi erano ammessi come pari e per il senso univoco che assumevano ancora in quelle occasioni i termini archein e prattein) dovrà raggiungere la generalità dei cittadini convenuti presso l’agorà. Lo spazio politico si forma quando quella ha perso la sua connotazione di spazio dello scambio commerciale, prepolitico, operante nelle comunità ancora prima che la città divenga una polis.

Comunque, la polis offriva, agli uomini che la costituivano, protezioni e rischi richiedendo una precisa partecipazione alla sua attività di comunità che si costituiva come spazio politico. In essa il confronto tra uguali, ma distinti individui, deve restare al di qua della violenza che di volta in volta può contrassegnare l’inizio, ma che è un momento prepolitico che all’interno della comunità deve essere superato per lasciare luogo alla discussione. Per riprendere la metafora del ritorno degli Achei da Troia ci sembra di poter dire che lì, sotto la tenda di Agamennone, Ulisse, Agenore e gli altri parlavano ‒ anche con i forti dissidi ‒ e consigliavano il re condottiero a cui era richiesto di ascoltare. La sua arbitrarietà nel sottrarre la schiava ad Achille, causandone lo sdegno ed il risentimento, aveva creato gravi difficoltà nella prosecuzione e nella conduzione della guerra. Vale a dire che, pur nel momento della violenza e delle decisioni eccezionali, un così grande consesso di Prìncipi si abituava all’esercizio politico della discussione: “È come se i Greci avessero separato il combattimento, senza il quale né Achille né Ettore avrebbero mai potuto mostrarsi e dimostrare chi erano realmente, dalla sfera militare, bellica, che è la dimora originaria della violenza, trasformandolo così in una componente integrante della polis e del politico”.


©  Stefano Berni, Antonio Camerano, L'alchimia del potere. La filosofia politica di Hannah Arendt, Mimesis, Milano 2023