Politica ed emergenza sanitaria. Una lezione di Foucault su parresia e democrazia
Marco Papetti

29.10.2021

Volendo trarre qualcosa di buono, in termini di riflessione filosofica, dal dramma globale dell’ultimo biennio pandemico, si potrebbe affermare che l’emergenza sanitaria ha fatto affiorare innumerevoli questioni su aspetti del nostro vivere in società che davamo per scontati e intorno ai quali, spesso, discettavamo senza mai davvero problematizzarli, discostandoci – lo scopriamo solo ora – da una loro reale comprensione.

Volendo giocare con le parole si potrebbe dire che l’emergenza sanitaria è stata anche un’emergenza politica e culturale, nel doppio senso della parola emergenza, come congiuntura imprevista di eventi ma anche come venire a galla – come emergere appunto – di questioni rimaste per troppo tempo in ombra, concernenti il nostro vivere e concepire il mondo in cui viviamo.

Tra di esse, rientra il problema del nostro modo di intendere quella forma di costituzione politica altamente sfuggente che è la democrazia, allo stesso tempo delizia e croce del mondo occidentale, valore imprescindibile ma precario – come testimonia la presenza in Europa di sinistre fascinazioni antidemocratiche – e facile preda di fraintendimenti – come invece dimostrano gli svariati insuccessi americani nei tentativi di esportarla ad ogni costo in altre zone del Globo.

Lungi dal voler affrontare sistematicamente qui la discussione di un tema così complesso, si vorrebbe però rileggere alcune riflessioni fatte da Michel Foucault nel corso al Collège de France del 1982-1983 (M. Foucault, Il governo di sé e degli altri. Corso al Collège de France 1982-1983, trad. it. di M. Galzigna, Feltrinelli, Milano 2009) in cui il filosofo francese, ragionando sul rapporto tra parresia (‘parlar-franco’, ‘dire-il-vero’) e democrazia nell’antichità, offre degli spunti interessanti per una meditazione sulla situazione socio-politica attuale.

Nelle ultime pagine della lezione del 2 febbraio 1983, Foucault espone un paradosso della relazione tra democrazia e parresia: da una parte, il dire-il-vero parresiastico è praticabile solo entro la politeia democratica, ma, generando all’interno di essa una superiorità tra chi sa dire il vero e chi no, vi introduce una differenza che sembra minarne il principio egualitario fondamentale (isegoria); dall’altro, anche la parresia corre costantemente una minaccia, in un sistema democratico, poiché il parlar-franco del cittadino virtuoso spesso può minare le certezze e le opinioni consolidate della maggioranza, causandone la reazione ostile.

Pertanto, dice Foucault, parresia e democrazia se da una lato necessitano l’una dell’altra, dall’altro si mettono vicendevolmente in pericolo: «Non vi è discorso vero» –scrive Foucault – «senza democrazia, ma il discorso vero introduce nella democrazia stessa delle differenze. Non vi è democrazia senza discorso vero, ma la democrazia minaccia l’esistenza stessa del discorso vero» (p. 179).

Ora, in questo discorso foucaultiano – che, va detto, non esaurisce in alcun modo la posizione del filosofo francese sulla democrazia – si potrebbero udire delle assonanze con problemi emersi durante la crisi causata dalla pandemia.

In fondo, dal punto di vista politico, a cosa si è assistito nell’emergenza Covid-19 se non all’emersione dell’ambiguità del rapporto tra verità e democrazia?

E dove, inoltre, se non attorno al dire-il-vero e alle conseguenze della sua pratica si sono concentrate le maggiori asprezze polemiche ed è stato catalizzato il dibattito pubblico, in un periodo di crisi sanitaria in cui l’unica parola vera e autorizzata sembra essere quella dell’esperto? E in cui, all’opposto e in contrapposizione a quest’ultima, l’irrazionale sfiducia verso pratiche sanitarie che andrebbero a vantaggio del vivere comune palesa i contorni di una cattiva parresia e i limiti di una imprecisa concezione dell’isegoria, in cui il diritto di prendere parola sfocia nel dominio dell’opinione?

In questo quadro, qual è il posto che dovrebbe avere il discorso vero nelle democrazie odierne? Chi lo pronuncia? E soprattutto, stretto tra la certezza scientifica e l’anarchia delle fake news, dove si situa il parlar-franco del filosofo, quale considerazione riceve e quale realmente merita?

Il doppio paradosso esposto da Foucault permette di inserire in una più precisa dimensione teorica la questione della verità e del suo posto nella democrazia, e forse a fare maggiore chiarezza su molta confusione odierna a riguardo, le ragioni della quale è probabile che vadano ricondotte a una mancanza di consapevolezza politica.

È infatti per la debolezza delle rappresentazioni comuni del politico che l’apparente instabilità e incapacità di indicare soluzioni certe e sicure – di dire il ‘vero’ in senso scientifico – propria della politica in una democrazia diviene sfiducia nei suoi confronti e origina i due opposti, da un lato, della fascinazione per la verità del dato il cui corollario (a)politico sono i governi dei tecnici e, dall’altro, dell’incontrollata proliferazione di verità personali disancorate dalla ricerca del vero e dalla dinamica collettiva del gioco politico.

È su tale dinamica – eminentemente politica – che invece Foucault richiama l’attenzione, ed è in essa che la parresia trova posto come condizione stessa di possibilità della «governamentalità» democratica (ibid.).

La parresia si inserisce nella vita di una polis democratica come un gioco agonistico il cui esito è l’emersione di un discorso vero e razionale il cui valore di verità è però diverso da quello della certezza scientifica, la quale non può sostituirsi a questa dinamica intersoggettiva.

Il fatto che questo processo abbia con la democrazia il rapporto paradossale di cui si è detto va considerato non una debolezza, ma un elemento costitutivo della politeia democratica, un’instabilità che va mantenuta in equilibrio e accettata nella sua essenza – lo si ripete – politica.

Richiamare a tutto ciò è compito del filosofo. Infatti, il suo parlar-franco deve descrivere apertamente questa «cesura […] indispensabile e fragile» (pp. 179-80) che il discorso vero introduce nella vita democratica e deve praticare egli stesso la parresia, come una «libera e […] coraggiosa attività di individui che si fanno avanti, che prendono la parola, che tentano di persuadere e che dirigono gli altri» (p. 155), accettando i rischi connessi a tale attività.

Facendo ciò, il filosofo oppone la sua buona parresia a quella cattiva che Foucault definisce come il discorso di chi parla soltanto per blandire la maggioranza, a tal fine «dicendo di tutto, dicendo qualunque cosa» (p. 178).

È forse soprattutto nelle crisi come quella che stiamo attraversando che la democrazia, nella sua dinamica concreta, deve lasciarsi attraversare dal discorso vero, che per Foucault non possiede solo un valore destabilizzante, ma anche costruttivo, poiché la parresia induce chi ha il coraggio di prestarvi orecchio a un esercizio su di sé volto a ridisegnare i propri limiti e la propria relazione con gli altri e con il mondo.

L’inquietudine che la manifestazione parresiastica può generare non deve fare arretrare da questo impegno paziente e faticoso, che riguarda la democrazia e la verità.

Sia per la democrazia che per la filosofia può valere ciò che Thomas Mann diceva tra le due guerre mondiali dell’umanesimo europeo, servendosene, per una volta in maniera acritica, contro i totalitarismi: se esse, come questo, nei momenti storici più critici sembrano vacillare di fronte a prese di posizione che non ammettono esitazioni, ciò non costituisce una prova del loro fallimento, ma la manifestazione inevitabile di quell’«elemento di debolezza» che è necessariamente connesso al loro «disprezzo del fanatismo» e al loro «amore del dubbio» (T. Mann, Attenzione, Europa!, in Id., Moniti all’Europa, a cura di L. Mazzucchetti, Mondadori, Milano 2017, p. 95).