"Perfect Days": il quotidiano e il suo mistero
Gianluca Viola

25.02.2024

Di fronte all’ultimo film di Wim Wenders, apprezzato affresco sulla semplicità della vita di un addetto alle pulizie delle toilettes pubbliche a Tokyo, si rimane affascinati dalla profondità di un’interrogazione che, pur secondo differenti – e divergenti – modalità, ha coinvolto una parte consistente degli intellettuali del secolo scorso: l’interrogazione intorno al quotidiano, all’essenza e all’esperienza del quotidiano.

L’esistenza di Hirayama appare, fin dal principio, condizionata inevitabilmente da una ferrea routine auto-imposta, la quale assume presto le fattezze di una ritualità: quest’uomo ormai in là con gli anni ogni giorno, alle prime luci dell’alba, si solleva dal suo futon, consuma le abluzioni mattutine, indossa la sua uniforme da lavoro, recupera chiavi e qualche spicciolo, esce dal suo modesto appartamento, si concede un caffè prelevato da una macchinetta automatica, mette in moto il suo furgoncino e, mentre ascolta vecchie cassette di Lou Reed o di Patti Smith, si reca presso i bagni pubblici, dove dovrà, per qualche ora, dedicarsi a minuziose pulizie; una volta terminato il suo compito, la sua routine prosegue: egli si reca alle docce pubbliche per igienizzarsi, si ferma sempre negli stessi locali per ristorarsi e, infine, ritorna nuovamente nel suo appartamento dove, dopo aver cenato, si perde nella lettura dei libri di William Faulkner o di altri autori occidentali e non, finché, sfinito, crolla in un sonno interrotto unicamente dal sorgere del nuovo giorno e dal ricominciare delle sue giornate, identiche l’una all’altra; per quanto una simile strutturazione, così precisa e puntuale, delle giornate parrebbe dover presto o tardi condurre ad una qualche forma di alienazione, nulla ci appare più distante dall’esperienza di Hirayama, il quale pare affrontare con uno spirito sereno, quasi privo di ombre – se non le immagini del suo passato quali gli si presentano ogni notte in sogno -, il suo quotidiano.

Che cos’è il quotidiano? Maurice Blanchot ha dato questa risposta: «Il quotidiano è la banalità (ciò che ritarda e ricade, la vita residua che riempie le pattumiere e i cimiteri, rifiuti e detriti), eppure questa banalità è della massima importanza, poiché rimanda all’esistenza nella sua spontaneità, così come la viviamo, nel momento in cui, vissuta, si sottrae ad ogni organizzazione speculativa […] Il quotidiano ha un carattere essenziale: non si lascia cogliere. Sfugge. Appartiene all’insignificante, e l’insignificante è privo di verità, di realtà, di segreti; eppure, potrebbe essere anche il luogo di ogni significato possibile.» (M. Blanchot, La parola quotidiana, in Id., La conversazione infinita. Scritti sull’«insensato gioco di scrivere», Einaudi, 2015, pp. 292-293).

Ambiguità decisiva del quotidiano: spontaneamente, la nostra esistenza si offre al mondo, in una dimensione priva di calcolo, dapprima nella comune banalità di un sempre già presente, di un accadere senza accaduto fondato su una «serie di atti tecnici indipendenti», pressoché identici, svolti senza cognizione di causa, ai quali assai difficilmente qualcuno sarebbe pronto a garantire un posto d’onore nella narrazione della propria vita: ciascuno si attende che la sua vita sia qualcosa di più, qualcosa di diverso rispetto al quotidiano; le biografie, le vite degli uomini illustri, sarebbero prive di ogni interesse se, volgendo le pagine, dovessimo leggere che il tale uomo o la tale donna si svegliava alla mattina, faceva colazione, si lavava, si vestiva, e così via, per quanto inevitabilmente tutto ciò comporti, a conti fatti, un impiego di tempo ben superiore e incisivo rispetto a qualunque azione eroica, degna di nota o, per lo meno, di essere raccontata. Per la quasi totalità del tempo, la nostra vita è immessa nel quotidiano e con esso coincide, senza che sia possibile sfuggire a questo movimento, se non per rapide e momentanee epifanie, subito sopite e divorate, anch’esse, dal grande mare dell’insignificanza.

Lo sfuggire del quotidiano - l’incapacità, per chi lo vive, di fissarlo, di poterne fare opera – rimanda ad una depersonalizzazione, ad una retrocessione dallo statuto dell’identità, giacché nel quotidiano non ci si può riconoscere, si è come catapultati improvvisamente da un’esistenza ritenuta essere di nostra proprietà in un particolare movimento: «il quotidiano è il movimento con cui l’uomo si tiene come a sua insaputa nell’anonimato umano. Nel quotidiano non si ha nome, la realtà personale è scarsa, si ha a malapena un volto, né abbiamo una determinazione sociale che ci sostenga o ci circoscriva» (Ivi., p. 296). In effetti, chi è Hirayama? Non sappiamo nulla di lui: egli è davanti ai nostri occhi, lo vediamo aggirarsi nel suo appartamento, sfregare con insistenza sui water e i lavandini, accendere e spegnere la sua abat-jour, ma la sua identità ci è completamente preclusa; Hirayama possiede un carattere timido, è un uomo di pochissime parole, neanche se interpellato concede all’interrogante una qualche risposta che ci consenta di ricostruirne una storia personale, di comprendere le ragioni profonde – se esse esistono – del suo comportamento abitudinario. Lo stesso Hirayama sembra assuefatto alla dimensione dell’anonimato, al punto da apparirci quasi sorpreso, inebetito, quando sente pronunciare dalla nipote – venuta a trovarlo dopo aver organizzato una fuga adolescenziale da casa – la parola «zio», sirena d’allarme che lo rimanda alla sua esistenza singolare, risvegliandolo da una sorta di trance; è solo in questo momento che veniamo a conoscenza di qualche dettaglio riguardante la sua storia, ma si tratta giusto di qualche dettaglio, a partire dal quale è possibile, per ognuno, immaginare chi sia, realmente, il nostro Hirayama, assegnare, a quel nome, la qualifica di Io: egli ha dovuto patire un forte dolore, un qualche malheur lo ha colpito, lo ha probabilmente separato dalla sorella – la madre della ragazzina che ha partecipato, per qualche giorno, al suo quotidiano – e ha contribuito a renderlo l’uomo attuale.

Nell’esperienza del nostro, però, non vi sono quei tratti caratteristici dell’appesantimento del quotidiano: l’alienazione in un lavoro usurante, la reificazione dovuta all’assenza di rapporti umani, l’automazione per la quale l’individuo può divenire poco più che un ingranaggio di una macchina produttiva, non sfiorano il buon Hirayama – egli non è un blasé, non è un uomo impermeabile alle sollecitazioni esterne, tiranneggiato dall’oscura oggettività della vita contemporanea: più volte lo si vede osservare i frammenti della vita altrui offerti alla sua vista, lo si vede contemplare un albero al quale scatta fotografie o guardare curiosamente i deliri di un vagabondo. Allo stesso modo, la sua esistenza non è completamente assorbita nell’impersonalità del Man heideggeriano: se è vero che «quando vivo il quotidiano, l’uomo qualsiasi lo vive, ed egli non coincide veramente né con me né con l’altro; non è né l’uno né l’altro, ed è sia l’uno che l’altro nella loro presenza intercambiabile» (Ivi., p. 298), come sottolinea Blanchot, quest’anonimato, quest’impersonalità, questa assenza di soggetto, non si irrigidiscono nella sterile ripetizione di un meccanismo pari a quello di una schiavitù non avvertita come tale e quindi ancor più inaggirabile.

In queste prospettive, il quotidiano ottunde l’essenza autentica dell’uomo, la quale andrebbe ricercata nello sforzo eroico d’assumere una propria identità, faticosamente conquistata proprio a spese dell’impersonalità della nostra esperienza di ogni giorno: una figura, la nostra, deve staccarsi dallo sfondo, l’esistente deve evadere dall’esistenza, dall’il y a, e riconoscersi in quanto Io, dotato di una personalità differente da quella altrui e assolutamente inconfondibile – così, l’insignificanza del quotidiano viene dotata di significazione, assume la fisionomia definita con la quale il soggetto d’ora innanzi dovrà identificarsi. L’esperienza di Hirayama presenta un altro senso del quotidiano, solo raramente accostato: in letteratura, Virginia Woolf vi si è approssimata, in memorabili scene in cui nulla accade a nessuno eppure qualcosa sta accadendo a qualcuno e questo qualcosa, in virtù della sua insignificanza, lascia emergere un senso recondito, riposto, scarnificando il senso che, invece, era stato imposto alle cose a partire da quella identificazione primaria nell’identità stabile e garantita, con l’illusione che essa fosse, a rigore, l’autentico – penso, ad esempio, alla prova del calzerotto marrone in To the Lighthouse, su cui tanto si è soffermato Erich Auerbach; in pittura, le bambine-angelo di Balthus, sorprese in momenti banali del loro quotidiano, mantengono lo sfuggente nel movimento dello sfuggire, senza attenuarlo: esse, pur dotate di un nome proprio, ci si presentano in quanto figure indifferenti alla durata, eternamente impossibilitate ad assumere una stabile fisionomia, prive di qualsivoglia personalità – nelle loro pose, ora ingenue ora lascive, niente che faccia pensare ad un Io: solo al «Chi?» di un’esistenza indefinita, per sempre incompiuta.

Incompiutezza del quotidiano: questo forse il senso profondo della sua impersonalità, «insignificante perché sempre al di qua di ciò che la significa», refrattaria allo slancio di tronfia compiutezza nella quale ognuno s’illude di poter pronunciare, a ragione, la parola Io. Nel finale del film, Hirayama incontra l’ex marito della proprietaria del locale in cui si reca per mangiare, verso la quale prova qualche timido sentimento; nella conversazione con quest’uomo altrettanto anonimo, questi gli rivela di essere affetto da un male che in pochi mesi lo porterà alla morte: questi due signori, strappati ognuno a suo modo a se stessi, ritornano allora improvvisamente bambini, giocano a calpestarsi a vicenda l’ombra, in un’atmosfera di gioia dolorosa tipica dell’infanzia. In questo divenire-bambino, il quotidiano si dimostra una «riserva d’anarchia», il luogo di una libertà dispiegata nella quale molteplici possibilità sono ancora in gioco e l’uomo può partecipare alla danza di queste possibilità, dietro ognuna delle quali si cela il miracolo dell’essere-nel-mondo.

Wenders ha così messo in scena il mistero del quotidiano: il sé come mistero, il «Chi?» della presenza al quale la nostra intera vita è consegnata, in un’esperienza che ci offre «la nostra parte d’eternità»: l’eternità di un compimento sempre differito - mistero dell’esistere, nostro e del buon Hirayama, sempre a metà fra il riso e il pianto, fra miseria e sovranità.