Per Valerio Evangelisti
Paolo Missiroli

23.04.2022

Valerio Evangelisti è morto. Si moltiplicano gli elogi funebri sul “maestro del fantasy italiano”. Idea di una letteratura ancorata al contenuto, più che alla forma: si ricorda l’autore per i generi che ha affrontato, per le storie che ha raccontato, non tanto per come lo ha fatto. Destino curioso per un autore come Evangelisti e tuttavia forse non così impensabile, già prima della sua morte. Chiunque abbia letto Evangelisti non può che essere rimasto colpito dal modo in cui scriveva.

La scrittura secca, asciutta, priva di pretenziosità, lasciava quasi sospettare una scarsa abilità espressiva. Solo nel corso della lettura si rivelava essere, questa forma, assolutamente funzionale al contenuto. Da qui la confusione: una forma elaborata apposta per approcciare la vita materiale fa intendere a chi rimane sulla superficie che la forma stessa non abbia valore. In realtà, Evangelisti scriveva così perché il suo intento non era impreziosire il reale, ma riportarlo sublimato dal punto di vista suo e dei suoi personaggi. Ben più che nella saga dell’Inquisitore Eymerich questo è evidente nella trilogia Il Sol dell’Avvenire, dove egli narra la nascita del socialismo nella Romagna (molto meno nell’Emilia) tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo.

L’arsura del suo scrivere è interamente funzionale al racconto della vita di queste famiglie di mezzadri e di braccianti, nel loro continuo intrecciarsi e separarsi. Evangelisti non vuole, ad esempio, narrare gli amori e le vicende personali dei suoi personaggi, se non nella misura in cui esse prendono luogo e forma in un contesto sociale e storico determinato. I personaggi di Evangelisti, in un certo senso, non hanno alcuna profondità; sono interamente proiettati nella realtà che li circonda e da cui provengono. Così, l’unico personaggio che sviluppa una storia d’amore “borghese”, dotata di una certa profondità e complessità, è Spartaco, il figlio fascista di Canzio Verardi.

Per Evangelisti, certo, l’amore non è esclusivo dei fascisti e dei borghesi, ma lo è il perdersi nei suoi meandri, il potersi permettere una vita interiore astratta dal contesto storico. Spartaco è l’unico personaggio della saga che muore suicida; non solo perché è fascista, ma perché si perde nell’amore di una donna che ha a sua volta perso il riferimento al movimento che trasforma lo stato di cose presente. L’amore tra proletari come Attilio e Rosa o tra Canzio e Isa, è cristallino e tenace tanto quanto impedito dal contesto sociale. Gli innamorati sono tenuti lontano dal mondo e dai nemici di classe, non dalla loro vita interiore: si soffre, così, perché il mondo è ingiusto, non perché i sentimenti siano “complessi”.

I personaggi di Evangelisti, così, sono interamente compresi nel loro carattere, che in realtà si trasforma molto poco: Canzio è aggressivo e quindi rivoluzionario; Isa, più razionale, appartiene alla corrente riformista. Non vi è alcun movimento nelle loro vite e nelle loro prese di posizione. Persino nei nomi, che Evangelisti ricava dalla tradizione romagnola, sono sciolti interamente nella lotta di liberazione del proletariato: Soviettina, Comunarda, Spartaco.

Nemmeno muoiono davvero, i personaggi di Evangelisti; è iconica la descrizione laconica della morta di Isa, uno dei personaggi principali di tutta la saga “Celebrate le esequie, si tornò alla regolarità della vita rurale.” I braccianti e gli operai non hanno tempo per morire: come gli animali secondo Martin Heidegger, essi sono troppo presi dal mondo che li circonda, senza mai guardare al proprio “cuore” e al proprio “Esserci”, per morire davvero. Come gli animali heideggeriani, i proletari di Evangelisti cessano semplicemente di vivere; quello che importa non è la loro esistenza individuale, il fatto di essere soggetti in un mondo, bensì la lotta tutta intera che, come un testimone, Attilio passa a Canzio che passa ai suoi figli che lo passeranno alle loro figlie, e così via.

In questo senso, Evangelisti ha tentato di riprendere l’antico e dimenticato genere dell’epica. Se il romanzo borghese è la concentrazione infinita sull’interiorità delle soggettività messe in scena, nella loro vita quotidiana, e niente è più apprezzato dell’evoluzione del personaggio, delle sue peripezie robinsoniane, per Evangelisti quello che conta è la lotta che un carattere e una condizione determinata storicamente possono generare. Rapporto inscindibile di forma e contenuto: solo una scrittura di questo genere è adatta a questo modo di pensare i soggetti. È, insomma, il tentativo indefinito di non approfondirli mai, di rendere profondo semplicemente il mondo che li circonda. Attilio, Canzio, Comunarda, Soviettina sono, semplicemente, proletari comunisti.

Vi è, certo, un estremo radicalismo in Evangelisti, di cui egli non ha fatto alcun mistero. Esso, tuttavia, agisce anche sul piano dell’espressione oltre che su quello della posizione politica, come abbiamo visto. Se il romanzo borghese nasce, come insegnava il giovane Lukàcs, dopo “i tempi beati in cui è il firmamento a tracciare la mappa delle vie accessibili e da battere, rischiarandole alla luce delle stelle”, tempi in cui “tutto è nuovo – e però familiare. Avventuroso e insieme avito.”, è certo che Evangelisti provasse fino in fondo a far tornare questi tempi.

Non, però, al modo dei critici-critici, che ritengono la letteratura o la filosofia in quanto tali strumenti di costruzione del mondo. Quest’ultimo è trasformabile solo dalle lotte effettive che egli raccontava con tanta dovizia storica; a esse è demandata, infatti, l’invenzione di “tempi beati” non nel senso che in essi potrebbe regnare un’armonia indefinita, bensì in quello che vi sarà una mappa possibile, un insieme di riferimenti a partire dai quali pensare gli spazi politici, i rapporti con il mondo e con gli altri. Per questo e per mille altri motivi di pochi è possibile dire, come vorrei dire di Valerio Evangelisti, che chi ha compagni non muore mai.